Ripensare il ruolo dell’epidemiologia, i rapporti con le altre discipline e con la società. di Paolo Giorgi Rossi

Non  ho idea di come si possa migliorare il SSN e tantomeno saprei dire se l’epidemiologia, o meglio una diversa organizzazione delle strutture di epidemiologia al suo interno, possa avere un ruolo determinante nel migliorarlo. Ogni tentativo di applicare un approccio empirico quasi-sperimentale per capire quale soluzione funzioni meglio naufraga nella mia ignoranza sull’organizzazione e sui risultati dei servizi sanitari dove non abbia lavorato direttamente.

Posso solo dire di cosa ho sofferto come epidemiologo in questi anni in cui ho lavorato prima in una struttura di livello regionale e poi in un’Azienda Sanitaria Locale che è anche un IRCCS.

Sicuramente ho sentito la mancanza di un livello nazionale di elaborazione e pianificazione, ma le poche volte in cui c’è stata ho vissuto ogni decisione di livello nazionale come una ingiusta limitazione dell’autonomia del livello locale. Unica eccezione, forse, la pandemia di COVID-19, dove, con un po’ di onestà intellettuale e col senno di poi, devo ammettere che avrei sistematicamente sbagliato più di quanto non sia stato fatto con le decisioni prese a livello nazionale, quando ci sono state.

Ho patito la disomogeneità dell’organizzazione dell’epidemiologia nelle diverse aziende territoriali, quando lavoravo in un’agenzia regionale, ma da quando lavoro in un’azienda territoriale mi rendo conto dell’impossibilità di formare un gruppo che abbia sufficiente massa critica per non soccombere nella routine in ogni singola azienda. Capisco dunque come si sia generata un’organizzazione a macchia di leopardo con alcune aziende che hanno gruppi forti e sicuramente sovradimensionati rispetto alle esigenze del territorio e alcune aziende che non hanno alcuna funzione di epidemiologia se non nominale e che può assolvere si e no le attività mandatorie di registrazione.

Questa realtà a macchia di leopardo dovrebbe favorire la creazione di reti, che almeno nelle regioni più grandi, potrebbero prevedere diversi centri di riferimento tematici che lavorano in modo sinergico, garantendo una più vasta copertura del territorio e una massa critica per essere incisive e autorevoli nei loro rispettivi ambiti. Ma più spesso le reti regionali sono esempi di sovrapposizioni di funzioni e competizione per i fondi, non tanto quelli dei bandi competitivi, quanto quelli più comodi concessi top-down per compiti e funzioni di livello regionale.

In questo ambito io mi sento, personalmente e istituzionalmente, un coacervo di conflitti d’interesse e, se dovessi decidere come ridefinire le strutture dell’epidemiologia nel SSN, mi guarderei bene dal chiedere consiglio a uno come me! Le esperienze passate, che hanno tentato di razionalizzare l’organizzazione di parti del SSN proponendo un modello organizzativo unico da replicare in tutte le regioni e aziende, hanno spesso dato vita a una gara per conquistare posizioni e mettere bandierine come in un Risiko! in cui al posto dei territori ci sono nuove unità operative; allo stesso tempo hanno distrutto quelle poche esperienze decenti che già esistevano. Anche qui, forse, parlo pro domo mia

Con queste poche e confuse premesse, direi che per capire come ristrutturare l’epidemiologia, dovremmo concordare su qual è il ruolo dell’epidemiologia. Quando dico concordare però non penso a concordare fra noi epidemiologi: dovremmo confrontarci con tutta la società. Dovremmo chiarire e spiegare cosa possiamo fare, o meglio cosa sappiamo fare, e poi farci dire a cosa può servire da chi vorremmo che utilizzasse il frutto dei nostri lavori.

Ho spesso la spiacevole sensazione che il dibattito fra epidemiologi sul ruolo dell’epidemiologia nel servizio sanitario, ma più ancora nell’orientare le decisioni e le politiche sanitarie, parta dal presupposto che l’epidemiologia sia la scienza giusta che i politici dovrebbero ascoltare per prendere decisioni corrette. Mentre gli altri esperti hanno una visione distorta della realtà, fuorviati e fuorvianti a causa della loro esperienza clinica, della chimera meccanicistica delle scienze di base o da palesi conflitti d’interesse.

La lezione più importante dell’evidence-based medicine e dell’HTA credo sia stata la necessità della multidisciplinarietà quando si vogliono fare delle valutazioni al servizio delle decisioni o formulare raccomandazioni. Dunque, se vogliamo essere di supporto alle decisioni, non possiamo che confrontarci con tutti gli altri professionisti che contribuiscono alla conoscenza e alla pratica nell’ambito su cui vogliamo influire. L’alternativa è mettersi in fila di fronte alla stanza del direttore generale, dell’assessore o del ministro cercando di passare avanti ad altri tecnici o di essere più convincenti. Si è prodotto così il coro stonato di esperti che ha tentato di tirare la giacchetta ai politici in direzioni opposte e che ha occupato l’arena televisiva durante la pandemia. Una struttura centralizzata di epidemiologi non credo risolverebbe il problema. Un hub che abbia a disposizione tutto NSIS per trovare le risposte giuste a tutte le domande, anche quelle sbagliate, con sistemi di deep learning, meno che mai.

Come epidemiologi, in molte occasioni, abbiamo l’opportunità e l’onere di facilitare un processo multidisciplinare di costruzione, analisi e sintesi delle evidenze, proprio in virtù dell’expertise sul metodo che ci è riconosciuta. Perché non usare questa nostra caratteristica di facilitatori di gruppi multidisciplinari anche nell’elaborazione del ruolo dell’epidemiologia? Il punto di vista di chi dovrebbe usare i prodotti dell’epidemiologia è altrettanto importante del punto di vista di chi li genera per definire dove e come collocarli nel sistema.

Un’apertura del dibattito è anche necessaria per non isolare l’epidemiologia come una branca del sapere autonoma, ma collocarla all’interno di un processo di produzione delle conoscenze scientifiche che coinvolge tutti i ricercatori e i clinici del servizio sanitario. L’epidemiologia è un metodo a servizio della conoscenza scientifica, dovremmo dunque chiederci quale sia il ruolo della conoscenza scientifica nelle decisioni.

L’autore: Paolo Giorgi Rossi, Servizio epidemiologia, AUSL-IRCCS di Reggio Emilia

fonte: E&P

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