Prevenzione del long-Covid, un effetto collaterale e virtuoso del vaccino. di Simonetta Pagliani

Dopo la fase acuta dell’infezione da SARS-CoV-2, sintomi sfumati possono prolungarsi per settimane o mesi, oppure possono manifestarsi sintomi importanti a 14-110 giorni dal contagio, dopo la negativizzazione del tampone naso-faringeo. È indicativo della confusione pandemica il ritardo a standardizzare persino la terminologia che i vari studi usano per indicare queste sequele: si passa da Covid post-acuto, a Covid cronico, a sindrome post Covid, prima di arrivare a long-Covid; finché, nel febbraio 2021, Anthony Fauci introduce la nuova denominazione Post-Acute Sequelae of SARS-CoV-2 infection (PASC) per disinnescare l’idea che esse siano rare, necessariamente senza soluzione di continuità con l’infezione e correlate alla gravità di Covid-19. Fauci cita, a riguardo, lo studio dell’Università di Washington che ha trovato, in una coorte di 177 pazienti, per la maggior parte non ricoverati e seguiti per 9 mesi, un 30% dei soggetti con sintomi post infettivi.

I primi articoli che mettono in guardia la comunità scientifica internazionale circa l’esistenza di un long-Covid risalgono all’estate 2020. In Inghilterra e negli Stati Uniti sono state sviluppate applicazioni per smartphone sulle quali i soggetti con diagnosi confermata di Covid-19 inseriscono le informazioni richieste: tale strumento porta a raccogliere una gran mole di dati, ma patisce i limiti legati alla soggettività delle informazioni registrate, alla discontinuità della raccolta e alla disomogenea alfabetizzazione tecnologica dei partecipanti, età-dipendente. A febbraio 2021, quando nel mondo si contavano già 175 milioni di infettati e 3,8 milioni di morti, erano state pubblicate più di 18.000 descrizioni di effetti a lungo termine di Covid-19.

Un pool internazionale di autori ha selezionato i quindici studi scritti in inglese che avevano reclutato un minimo di 100 pazienti, arrivando così a esaminare in una metanalisi un totale di 48.000 pazienti tra i 17 e gli 87 anni d’età, l’80% dei quali aveva ancora, a due settimane dalla diagnosi di Covid-19, almeno un sintomo o segno o parametro di laboratorio anomalo. Quest’ultimo poteva essere proteina C reattiva, interleukina-6, D-dimero, ferritina o peptide natriuretico di tipo B, mentre le manifestazioni cliniche di long-Covid più frequenti – dal 58% al 25% dei soggetti infettati – erano fatigue (sensazione di estrema stanchezza fisica, emotiva e cognitiva, non proporzionata all’attività svolta e non alleviata dal riposo), cefalea, perdita dei capelli e dispnea (fatica a respirare). Frequenza inferiore avevano i sintomi di fibrosi polmonare (tosse insistente), di miocardite (dolori al petto, aritmie) e altri generici (anosmia, tinnito, sudorazioni notturne). La compromissione nervosa (disordini dell’attenzione tipo brain fog, ansia, depressione, insonnia e disturbi ossessivo-compulsivi) è particolarmente rilevante e persiste anche a distanza di un anno dall’infezione, come ha confermato, proprio in questi giorni, uno studio su un grandissimo numero di osservazioni dell’US Department of Veterans Affairs.

I risultati della metanalisi sono in linea con le conoscenze scientifiche già acquisite riguardo alle sindromi post acute degli altri due coronavirus SARS e MERS e anche dei virus Chikungunya ed Ebola.

A quasi un anno di distanza, una nuova metanalisi di 81 studi con lungo follow-up dei pazienti Covid-19, ha trovato che il 32% di loro sperimentava fatigue e il 22% decadimento cognitivo 12 settimane dopo la diagnosi, con aumento degli indici infiammatori ematici in molti casi. Facendo quattro conti, questi dati di prevalenza, trasposti sugli attuali 400 milioni di casi confermati (e documentati) di Covid-19, portano a un totale di circa 100 milioni di persone che, nel mondo, convivono con il long-Covid.

A dispetto del gran numero di studi che hanno scandagliato ogni aspetto della sindrome, il long-Covid (o PASC) resta un bersaglio mobile e una continua (amara) sorpresa per medici e pazienti: sebbene più probabili dopo malattia grave, scostamenti duraturi dallo stato fisico e mentale pre-infezione riguardano anche pazienti che non hanno subìto il ricovero ospedaliero o, addirittura, gli asintomatici. Inoltre, emergono sintomi dapprima ignorati, come il malessere dopo esercizio fisico, di recentissima individuazione, che sembra essere indipendente da patologie cardiache o polmonari, ma semmai causato da minore afflusso di sangue ai muscoli, per deficit vasale.

Del long-Covid non sono ancora stati chiariti (se esistono) i fattori di rischio demografici, sociali, etnici, infettivologici, immunologici o clinici. Sono, infine, tuttora oggetto di dibattito i meccanismi con cui il virus crea danni a lungo termine al cuore e ai vasi: potrebbero essere in causa l’infiammazione dell’endotelio (il rivestimento interno dei vasi), gli elevati livelli di citochine, un danno tissutale diretto da parte dell’agente patogeno o la sua persistenza in siti segretati dalle difese immunitarie. In generale, l’età avanzata, un indice di massa corporea più alto e l’essere donne (almeno fino ai 60 anni, quando il rischio diventa simile a quello degli uomini) sembrano fattori di rischio di long-Covid e l’ipotesi autoimmune potrebbe giustificare quest’ultima osservazione: la risposta anticorpale più forte (per fattori sia genetici sia ormonali), che rende meno grave per le donne la malattia acuta, le penalizza con una maggiore incidenza di autoimmunità.

Un secondo studio condotto sulla stessa coorte di veterani già citata (più di 11 milioni, compresi i controlli), ha rilevato che, negli oltre 150.000 soggetti che avevano contratto l’infezione da SARS-CoV-2, erano aumentati fino a tre volte sia il rischio di sviluppare malattie cardio-cerebrovascolari e tromboemboliche nei primi 30 giorni, sia il carico di malattia a un anno di distanza, a parità di età, di stato diabetico o di abitudine al fumo. Eric Topol, direttore dell’importante Scripps Research Institute di La Jolla, California, ha chiosato i risultati dell’indagine come la definitiva smentita dell’equiparazione di Covid-19 a una banale influenza.

Vale la pena di sottolineare due caratteristiche dello studio: il 90% dei veterani era di genere maschile e, soprattutto, il 99,7% degli infettati non era vaccinato. Per quanto riguarda l’ipotesi che il vaccino prevenga il long-Covid, il compendio breve delle prove di letteratura aggiornato al gennaio 2022 dell’UK Health Security Agency dà conto di quindici studi che valutano gli effetti della vaccinazione, praticata prima dell’infezione oppure a long-Covid già in atto, sull’incidenza o sulla gravità delle sequele. Due dosi di vaccino riducono il malessere post infettivo inabilitante, secondo un ampio studio britannico, e lo evitano del tutto secondo un più recente studio israeliano. Un terzo studio assegna un ruolo preventivo già alla singola dose di vaccino, perfino se inoculata dopo aver contratto l’infezione da SARS-CoV-2 (15); uno studio su 10.000 vaccinati nega, però, una diminuzione del rischio di sequele negli infettati ultrasessantenni.

Gli studi su persone vaccinate con long-Covid in atto danno risultati diversi: alcuni riferiscono una diminuzione dei sintomi, uno riferisce un peggioramento, altri una situazione immutata. È del tutto accantonato il timore di conseguenze tipo ADE (Antibody-Dependent Enhancement o potenziamento anticorpo-dipendente) della vaccinazione fatta dopo l’infezione: la facilitazione dell’ingresso del virus nella cellula ospite, grazie al legame con anticorpi non neutralizzanti è, infatti, esclusa non solo dagli studi autorizzativi di Pfizer, ma anche da una ricerca che ha dimostrato come la risposta immunitaria a una sola dose vaccinale degli individui con pregressa infezione sia complessivamente migliore rispetto a quella dei non infetti dopo due dosi di vaccino.

Quale sia la prognosi del long-Covid non è ancora dato saperlo, perché i dati disponibili provengono dall’infezione con la variante Delta. Inoltre, è ancora prematuro escludere che il virus nella ormai prevalente variante Omicron, che pur tende a dare una malattia meno grave, specie nei vaccinati, possa comunque agire lentamente, a danno di organi e apparati diversi dal respiratorio. Finora, è stato visto che il deficit organico tende a risolversi, sia pure con diversa durata e completezza della regressione dei sintomi. Anche se ha sintomatologia in parte sovrapponibile, il long-COVID va distinto dalla sindrome post-terapia intensiva (Post-Intensive Care Syndrome, PICS), termine introdotto nel 2010 con il quale si definiscono “menomazioni nuove o in peggioramento dello stato di salute fisica, cognitiva o mentale che insorgono dopo una malattia critica e persistono oltre il ricovero per cure acute”, proprio perché fa seguito anche a forme di malattia non critica; tuttavia, gli insegnamenti derivati dalla PICS sono applicabili alla nuova sindrome cronica, purché si arrivi tempestivamente alla diagnosi.

Vanno, quindi, sorvegliati dal medico di medicina generale, anche dopo la negativizzazione del tampone, i pazienti con sintomatologia rilevante da Covid-19, fragili, immunodepressi, anziani o multi patologici e la parola chiave di ogni contatto (anche telefonico) dovrebbe essere “ascolto confidente” (contrario di diffidente) dei sintomi riferiti dal paziente. Il fine è assisterlo direttamente, ritornando alle visite ambulatoriali, se non addirittura aumentandole, oppure demandarne la cura a strutture preposte.

Il documento 15/2021 dell’Istituto Superiore di Sanità Indicazioni ad interim sui principi di gestione del Long-COVID segnala l’apertura di ambulatori e di cliniche “post-Covid”, che erogano un’assistenza multidisciplinare. In realtà, le esperienze in atto di day-hospital o ambulatoriali sono, ribaltando l’espressione popolare, “buone ma poche”, tanto che, per contarle, le dita di due mani sono troppe: Day Hospital Post-COVID Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS di Roma; Clinica delle Malattie Infettive e Pneumologica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Modena; Ambulatorio post-COVID ASST Monza Ospedale S. Gerardo; ambulatorio post-Covid dell’Ospedale San Martino di Genova; Ambulatorio Follow-up COVID-19 ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano; Ambulatorio e Day-hospital dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma; Presidio ospedaliero San Marco di Catania: ambulatorio pediatrico.

Tutte le prestazioni di follow-up sono a carico del SSN; il decreto-legge Sostegni bis indica anche l’importanza di definire studi mirati di raccolta dei dati sul long-Covid, dato che la sua comprensione è rilevante per il coordinamento delle risposte del Servizio sanitario nazionale. La terapia è prevalentemente riabilitativa e di sostegno contro il danno d’organo. D’altronde, come disse Fauci, «È molto difficile trattare qualcosa, quando non sai qual è l’obiettivo del trattamento”». Probabilmente, per ora, la risposta giusta è, a livello individuale, quella adattativa attagliata sulle esigenze della persona e, a livello di popolazione, il contenimento della circolazione del virus.

 

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fonte: SCIENZA IN RETE

fonte img: cemad gemelli

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