Carcere e marginalità sociale, un’altra via è possibile? di Stefano Anastasia

Intervista a Stefano Anastasia, di Gianfranco Falcone – L’Espresso, 19 aprile 2022

L’opinione di Stefano Anastasia. Continuiamo i nostri dialoghi sul carcere. Perché il carcere? Perché è uno dei luoghi dell’impossibile, uno di quei luoghi in cui l’umano sembra venir meno, eppure riesce misteriosamente a fiorire. Il carcere è un luogo fisico, ma è anche metafora. Senza dubbio è uno di quei luoghi in cui lo Stato mette alla prova la sua presenza, le sue ideologie, nei confronti di chi è più fragile. Oggi dialoghiamo con Stefano Anastasia.

Chi è Stefano Anastasia?

Stefano Anastasia è un docente di sociologia e filosofia del diritto all’università di Perugia. Sono stato tra i fondatori dell’associazione Antigone, di cui sono stato presidente per un periodo e attualmente presidente onorario. Sono garante delle persone private della libertà della regione Lazio. Lo sono stato anche della regione Umbria. Sono anche portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà, cioè i garanti nominati dalle regioni, dalle province, dai comuni.

  • Lei è stato anche il capo di gabinetto del sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri…

Sì. Sì, giusto. A dirla tutta sono stato anche presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia. Poi dal 2006 al 2008 capo della segreteria di Luigi Manconi quando Luigi Manconi era sottosegretario alla Giustizia, con delega all’amministrazione penitenziaria.

  • Che cos’è Antigone e perché questo nome?

Antigone è un’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Perché la figura di Antigone nella tragedia di Sofocle esprime sostanzialmente il conflitto tra le norme di legge e l’idea di giustizia. Fu una rivista di cui fu direttore proprio Luigi Manconi, che accompagnò il fenomeno della dissociazione dai reati di terrorismo, delle persone che vi erano coinvolte. Quando abbiamo costituito l’associazione abbiamo ripreso il nome che era stato della rivista.

  • Che cosa fa un garante?

Un garante risponde innanzitutto alle istanze dei detenuti, che arrivano nei modi più diversi, ad esempio dagli avvocati, dalle visite in istituto. Poi fa appunto verifiche negli istituti, verifica le condizioni materiali di detenzione. Ovviamente se è il caso segnala all’amministrazione penitenziaria cosa debba fare perché queste condizioni siano più dignitose. Poi un garante territoriale deve anche fare un lavoro di verifica e di sollecito sugli enti territoriali, regioni, province e comuni. Perché gli enti territoriali hanno un sacco di responsabilità, anche se spesso non lo sanno rispetto esecuzione penale, dal punto di vista sociale, dal punto di vista dell’assistenza sanitaria. Gran parte delle cose che riguardano l’esecuzione della pena dipendono anche dalla capacità degli enti territoriali di lavorarci.

  • Il Recovery fund e il PNRR prevedono impegni di spesa per il carcere? Se sì di quale entità e in quali comparti? Ad esempio prevedono una differente politica edilizia o l’assunzione di nuovo personale educativo. Oggi c’è un educatore ogni 73 detenuti (Rapporto Associazione Antigone, marzo 2021)…

Ora è in corso di svolgimento un concorso che dovrebbe portare all’assunzione di circa duecento educatori, che non è una cosa da poco. Ma non c’entra nulla con il PNRR. Purtroppo il PNRR ha investito solo sulla costruzione di otto nuovi padiglioni detentivi, che verranno aggiunti ad alcuni istituti già esistenti. Però non prevede altro. Da questo punto di vista non mi pare ancora una misura minimamente efficace. Perché ovviamente il nostro problema non è tanto quello di aumentare la capienza gli istituti di pena che già oggi ospitano molte persone che non avrebbero alcuna ragione di stare in carcere, ma invece fare una politica adeguata sul territorio per far sì che possano uscire dal carcere quelli che non dovrebbero starci.

  • Prendo spunto dalla sua risposta per citarle alcuni dati che sono di due anni fa ma che possiamo considerare ancora validi ai fini del nostro ragionamento. Marcello Bortolato ed Edoardo Vigna nel loro libro Vendetta Pubblica. Il carcere in Italia (Editori Laterza 2020) sottolineano che: “Solo il 24% dei condannati va in carcere in Francia e in Inghilterra, in Italia l’82%. Inoltre, i carcerati italiani hanno in media pene più lunga rispetto ai vicini europei: coloro che scontano l’ergastolo sono il 4,4% dei condannati, in confronto al dato europeo del 3,5%”. Perché queste differenze? Perché in Italia si va così tanto in carcere?

L’ordinamento ha ancora come centro la pena detentiva. Tutto ruota attorno alla pena detentiva. Le misure alternative sono ancora concepite come alternative rispetto a un quanto di pena detentiva definita per sentenza. Solo ora, con per esempio le riforme che sono state delineate anche recentemente, approvate recentemente dal Parlamento, la riforma Cartabia, si prevede che per le pene minori possa non esserci il carcere. Il rischio è che gran parte di quella che noi chiamiamo detenzione sociale continui a essere destinata al carcere.

  • Che cosa intende con “detenzione sociale”?

Detenzione sociale è un’espressione che usava un famoso magistrato di sorveglianza che è stato anche capo dell’amministrazione penitenziaria, Alessandro Margara, ed è un’espressione che sta a significare la gran parte della popolazione detenuta che è in carcere perché non ha un’adeguata politica di accoglienza e di sostegno sul territorio, per reati minimali, per condizioni di irregolarità sociale sostanzialmente.

  • Possiamo dire dei numeri? Questa detenzione sociale quanto incide sui 54.645 detenuti oggi presenti in Italia?

I detenuti per fatti legati ad organizzazioni criminali sono circa 10.000. È presumibile che ce ne siano altrettanti per fatti di qualche gravità come i reati contro la persona. Il resto sono reati legati a condizioni di marginalità sociale, piccole appropriazioni di cose, reati legati a condizioni di irregolarità sociale. Quindi, stiamo parlando di una buona metà delle persone detenute che rientrano in questa categoria della detenzione sociale.

Vorrei leggerle alcuni dati e commentarli con lei. Oggi i detenuti in Italia sono 54.645. In carcere si suicidano circa 50 persone all’anno. I casi sono “oltre 10 volte in più rispetto alla popolazione libera” (Rapporto associazione Antigone, marzo 2021). Almeno la metà dei detenuti tollera il carcere con l’uso massivo di psicofarmaci. Il sovraffollamento è un problema endemico. I pestaggi non sembrano essere un’eccezione. Pensiamo ai fatti avvenuti a Santa Maria Capua Vetere, nel carcere di San Sebastiano di Sassari nell’aprile del 2000, a quelli avvenuti negli istituti penali di Ferrara, Modena, San Gimignano, Sollicciano, Torino, alle condizioni di vita del Sestante. Pensiamo agli studi dell’Università di Stanford in cui volontari suddivisi in due gruppi, uno di detenuti e l’altro di guardie, replicavano meccanismi di violenza e sopraffazione, tanto che l’esperimento fu sospeso prima del tempo.

  • Sembra che la violenza in carcere non sia evitabile. A fronte di questi numeri e di queste considerazioni possiamo dire che il carcere assolve al dettato costituzionale di rieducare? L’articolo 27 della costituzione dice in maniera inequivocabile al terzo comma: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”…

Assolutamente no. Questo è un fatto mi pare assodato, accertato, di cui sono consapevoli anche la stragrande maggioranza degli operatori penitenziari. Gli operatori penitenziari tentano di far assolvere al carcere il mandato costituzionale. Ma ci riescono in pochissimi casi, casi generalmente di persone che hanno risorse personali e sociali importanti, proprie o relazionali esterne, quindi riescono a fare del passaggio in carcere un passaggio che non li danneggia ma dà qualche opportunità in più. Oppure casi eccezionalissimi in cui si allineano tutte le stelle. Cioè, un buon trattamento penitenziario, un buon magistrato di sorveglianza, un buon territorio esterno, e altro ancora, che producono dei risultati significativi. Però questi casi si contano nell’ordine delle decine l’anno in tutta Italia.

  • Quindi semmai dovessi finire in carcere più che un avvocato mi servirebbe un cartomante?

Sì. Sì, per capire se si è sulla strada buona.

  • La popolazione carceraria è costituita per circa il 35% da soggetti tossico dipendenti. Si tratta di detenuti che hanno commesso reati relativi allo spaccio di droga – perché per drogarsi sono costretti a spacciare -, oppure reati connessi, tipo la rapina e il furto. Il 40% 45% della popolazione è costituito da extracomunitari. Sono sempre dati pubblicati da Bortolato e Vigna nel 2020. Dal rapporto Antigone del marzo del 2021 risulta che la grande percentuale dei detenuti proviene dalle regioni del Centro Sud. Quindi, citando l’associazione Antigone “Conta pertanto sicuramente la condizione sociale ed economica di provenienza”? Sempre secondo il Rapporto Antigone “Man mano che cresce la pena diminuisce la percentuale dei detenuti stranieri, segno, ancora una volta del minore spessore criminale e di un uso selettivo della giustizia penale”. Di fondo sembra che in carcere ci vadano più coloro che non sono in linea con le norme culturali piuttosto che coloro che delinquono. Che cosa ne pensa di questa lettura?

Sì. In gran parte è così. Tenendo presente però che le norme di legge spesso vengono fatte esattamente per poter controllare comportamenti socialmente devianti. Anche di questo bisogna tener conto. Per esempio abbiamo citato la legislazione sulla droga o anche quella sull’immigrazione che sono fatte in modo tale da consentire il controllo, e quindi anche la carcerazione di alcune figure sociali, consumatori di sostanze stupefacenti o migranti irregolari. E che costituiscono un problema agli occhi, o nella concezione dell’opinione pubblica.

  • Quindi, modificando un assetto culturale si potrebbe modificare anche l’assetto del carcere? Perché non mi sembra che stiamo parlando di valori assoluti, sempre ammesso che questi esistano, ma di relatività culturale…

Sì. Se appunto nella relatività culturale ci mettiamo questo fenomeno della disuguaglianza sociale. Non è solo un problema di culture, è anche un problema del modo in cui rapportiamo alle disuguaglianze. Per quanto riguarda gli stranieri però in parte riguarda tutta una serie di comportamenti non conformi, marginali, che in qualche modo urtano la sensibilità pubblica, o almeno urtano la sensibilità di coloro che parlano in nome della sensibilità pubblica.

  • C’è una grande percentuale di detenuti con pene inferiore ai quattro anni e un’altra percentuale importante con pene residue inferiori ai quattro anni. Applicando a questi detenuti pene alternative, o percorsi rieducativi il carcere potrebbe diventare più vivibile perché si svuoterebbe. Lei mi ha già detto che le persone che riescono a usufruire di questi percorsi sono una minima percentuale. Nel libro Abolire il carcere, lei scrive che questi esempi virtuosi potrebbero rappresentare la tipica foglia di fico per nascondere una realtà molto più complessa e fatiscente. Che cosa si può fare per togliere dal carcere questa popolazione che in realtà ha finito la maggior parte della sua pena o ha una pena minimale da scontare?

Io penso che dovremmo discutere a proposito del PNRR di cui abbiamo detto, dovremmo discutere di ciò che il PNRR prevede in termini di coesione politica e sociale, e del modo in cui la programmazione degli enti territoriali, che peraltro si sta facendo, tenga conto o non tenga conto dell’esistenza degli istituti penitenziari. Quello sarebbe un modo per agire in maniera ragionevole su queste questioni. Cioè, costruire servizi e politiche del territorio che consentano di far uscire dal penitenziario questa gran parte di persone detenute che sono detenute con pene brevi o pene residue brevi. Le faccio un esempio di un caso che probabilmente non avrà trovato, perché è stato minimale, ma è indicativo. In occasione dell’emergenza covid c’è stato un programma straordinario, approvato dalla Cassa delle ammende, con il concorso delle regioni. Per far uscire dal carcere le persone che avevano pene brevi o brevissime, ma non avevano un posto dove andare. Per questo programma sono state messe a disposizione della regione Lazio 95 posti presso strutture di accoglienza. In un anno sono passate 22 persone da questi 95 posti. Perché non c’è proprio la capacità di lavorare su queste cose quand’anche sia stata fatta una programmazione. Il problema è lavorare su questo. Cioè, come si fa a far uscire dal carcere quelle persone che entrano e ci stanno per un anno o due anni, e che fuori non hanno nulla? E sì, bisognerebbe fare un PNNR che riguarda la giustizia, legato al modo in cui le istituzioni penitenziarie possono entrare nella programmazione sociale territoriale.

  • Studi recenti sembrano affermare che le teorie sulla pena non abbiano un fondamento razionale, filosofico, religioso. Non ce l’ha la teoria retributiva né quella preventiva speciale. Così come non ce l’ha la Teoria della prevenzione generale. Sembra che nessuna delle attuali concezioni della pena sia efficace. Infatti la percentuale di recidiva è altissima. Circa il 70% di coloro che entrano in carcere ci tornano in breve tempo. Con che cosa si può sostituire il concetto di pena?

Il concetto di pena può essere sostituito attraverso forme di conciliazione. All’origine di qualsiasi pena c’è un conflitto relazionale tra una o più persone. L’unica alternativa al giudice, che decide autoritativamente il debito da pagare per chi ha commesso il reato, è percorrere strade di conciliazione tra le parti. In fondo è ciò che si propone la mediazione penale e si propone la giustizia riparativa.

  • È un sogno o arriveremo ad abolire il carcere così come abbiamo abolito il manicomio?

Intanto il carcere si può abolire ancora conservando il modello della giustizia penale. Salvo che la pena può non essere detentiva. Può essere una prestazione o qualsiasi altra forma di limitazione della capacità della persona che non passa attraverso la limitazione della libertà. Poi c’è anche il superamento della giustizia autoritativa, cioè della giustizia penale. È appunto un superamento che si può attuare in questa forma di valorizzazione delle forme di composizione dialogica dei conflitti.

  • Può spiegare il concetto di giustizia autoritativa?

La giustizia comminata dal giudice è una giustizia autoritativa. C’è un’autorità terza superiore.

  • In Brasile ci sono 622mila persone recluse. È il quarto paese al mondo per numero di detenuti, dopo gli Stati Uniti. Negli USA ci sono più di 2.250.000 persone in prigione. Il 40% di queste sono afroamericane. Sebbene su una popolazione complessiva di più di 330 milioni gli afroamericani costituiscano solo il 13,1% del totale. La Russia e la Cina sono rispettivamente al terzo e al quarto posto. Le Apac brasiliane possono essere un modello alternativo? Nelle Apac i detenuti hanno le chiavi delle celle, non ci sono guardie, si esce a lavorare e c’è solo detenzione notturna, nei progetti sono inclusi anche le famiglie…

Esperienze comunitarie lo sono sicuramente un modello alternativo al carcere. Ovviamente bisogna verificare in quella realtà qual è lo spazio di libertà della persona. Non dobbiamo dimenticare che nella nostra esperienza quotidiana ci sono state presenze di comunità terapeutiche, che sono state anche più dure di un’esecuzione penale in carcere.

  • Se io rubo una maglietta vado in carcere. Se io ammazzo, come successo recentemente, una donna di ventisei anni vado in carcere. Sembra che non ci sia differenza tra il rubagalline e l’assassino. Non è una rozza stortura del sistema giuridico italiano?

Sì. esattamente. Perché corrisponde alla concezione che la privazione della libertà sia un equivalente universale. Vale per tutte le forme di condotte lesive o offensive. E poi viene commisurata solo sul tempo. Mentre invece la cosa che dovremmo intanto imparare che la libertà essendo un bene fondamentale della persona, là dove lo riteniamo accettabile, debba essere privata soltanto quando c’è un reato di particolare gravità. Quindi, dovremmo essere capaci di riconoscere che tutti i reati per esempio che non sono offensivi per la persona umana non dovrebbero essere associati al carcere. Non dovrebbero poter comportare la privazione della libertà.

  • Qual è l’origine storica del sistema custodialistico carcerario?

L’origine storica è quella della prima età moderna, dell’urbanizzazione, del fenomeno del vagabondaggio, e della necessità di disciplinare e contenere le masse contadine che arrivavano delle prime grandi aree urbane del Cinquecento, Seicento. Questa è l’origine storica del carcere come modalità detentiva. Purtroppo si riproduce ancora oggi. Ancora oggi il carcere ospita principalmente marginalità sociale urbana.

  • Quando la dottoressa Susanna Marietti mi ha inviato le fotografie del carcere a disposizione dell’associazione Antigone le ho equiparate alle fotografie che mi aveva inviato il fotografo Giacomo Doni sui manicomi. Non ho trovato molte differenze. Tra l’altro il giornalista Alberto Gaino nel suo libro Il manicomio dei bambini, sottolineava che i numeri dei ricoverati nei manicomi di Torino crescessero esponenzialmente nel momento della grande espansione della FIAT. Le masse contadine che non riuscivano ad essere assorbite dall’industria molto spesso finivano in manicomio. Mi sembra che lei mi stia parlando di un fenomeno che ha delle somiglianze con quanto accadeva per il manicomio…

Sì. È esattamente la medesima cosa. Sono tutte istituzioni disciplinari che nascono dentro quel contesto, che rispondono a quella funzione, e in cui i transiti sono abbastanza significativi. Lo sono stati finché noi avevamo un manicomio e carcere, lo sono stati con l’ospedale psichiatrico e giudiziario e carcere. Continuano ad esserlo tra alcune forme di residenze psichiatriche e carcere, o per esempio le residenze per le misure di sicurezza. Comunque, queste istituzioni totali sono istituzioni disciplinari finalizzate al contenimento di una certa marginalità sociale. Poi là dove c’è il rilievo di una possibile patologia mentale si viene indirizzati sul versante manicomiale. Là dove non c’è si viene indirizzati sul versante carcerario. Però spesso si tratta delle stesse persone.

  • Nel 2015, l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando volle gli Stati generali dell’esecuzione penale. Questa esperienza non si è tradotta in una vera riforma. Alcune delle istanze espresse sono state però accolte?

In realtà è una cosa che andrebbe tutta rivista. Perché le istanze degli Stati generali sono rimaste in gran parte sulla carta. Gran parte di quelle valutazioni non riuscirono a entrare nella proposta della commissione Giostra [Commissione istituita nel 2017 ai fini della riforma del sistema penitenziario nda] che ovviamente fu limitata ai provvedimenti normativi più significativi. E poi non furono tradotti in parte nella proposta di legge che seguì. Alla fine tutta la parte che riguardava le attività alternative al carcere fu espunta dal decreto che alla fine venne approvato dal governo e portato in Parlamento. Quindi, quelle istanze sono ancora in gran parte sulla carta e si dovrebbero, e si potrebbero recuperare. Tanto più oggi che dopo la pandemia il nostro sistema penitenziario ne è uscito completamente stravolto. Per cui noi non abbiamo più una fisionomia degli istituti di pena, un’organizzazione del loro lavoro nella finalità del reinserimento sociale, o comunque nel sostegno alle persone in difficoltà. È tutta una partita che andrebbe ripresa e verificata sul campo.

fonte: Ristretti Orizzonti

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