Etichette e alcolici, il cortocircuito proibizionista. di Peppe Brescia

La decisione da parte del Parlamento irlandese di inserire avvertenze sanitarie sulle etichette delle bottiglie di alcolici non ha mancato di generare una serie di veementi reazioni da parte dei politici nostrani. Fra questi, Gianantonio Da Re, europarlamentare leghista e membro del gruppo Identità e Democrazia, il quale ha affermato: “Sarebbe un provvedimento sbagliato e inefficace, che non mira a risolvere un problema che evidentemente sta altrove. Un buon bicchiere di vino non ha mai fatto male a nessuno. Anzi, è dimostrato che faccia bene alla salute, lo sapevano anche i nostri nonni”, aggiungendo che una decisione simile si rivelerebbe uno strumento in grado di penalizzare i prodotti stessi.

Dichiarazioni che presentano più di un elemento di criticità, e su cui è dunque necessario soffermarsi, puntualizzando che l’intento non è certo la stigmatizzazione del consumo (o dell’abuso) di alcol, specialmente scrivendo a seguito delle feste natalizie. Periodo in cui, per definizione, nessuno di noi si nega quel bicchiere in più, in compagnia di amici e parenti. Sembra invece utile un approfondimento sui modelli di uso (e di abuso) delle sostanze, legali e illegali, e di come diversi quadri di regolamentazione e di controllo sociale possano influire o meno sugli usi problematici delle stesse.

Innanzitutto, occorre iniziare specificando che la delibera irlandese si inscrive all’interno dell’European framework for action on alcohol 2022-2025, documento adottato dall’OMS il 14 Settembre 2022. La risoluzione, approvata in assenza di obiezioni da parte dei rappresentanti europei, prevede aumento della tassazione e divieto di pubblicità e azioni di marketing, nonché obbligo di etichettatura delle bottiglie con il cosiddetto health warning, come accade con i pacchetti di sigarette. È quest’ultimo il punto ad aver generato la maggior indignazione dei nostri esponenti politici. Partiamo dal divieto di pubblicizzare bevande alcoliche. Il principale riferimento, ossia la legge quadro in materia di alcol e di problemi alcol correlati pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 90 del 18 Aprile 2001, fornisce indicazioni inequivocabili: la pubblicità di alcolici e superalcolici è vietata, fra le altre cose, se all’interno di programmi rivolti ai minori e qualora tesa a rappresentare in modo positivo l’assunzione di questi prodotti. In particolare, “è vietata qualsiasi pubblicità che attribuisca efficacia o indicazioni terapeutiche che non siano espressamente riconosciute dal Ministero della Sanità”. Ministero che, su questo, si esprime senza tema di smentita: “Al contrario di quanto si ritiene comunemente, l’alcol non è un nutriente e il suo consumo non è utile all’organismo o alle sue funzioni“. Mettiamo da parte consigli del nonno e proverbi popolari, senza dubbio pregnanti dal punto di vista della cultura dell’uso della sostanza, ma del tutto privi di fondamenti scientifici. Come del resto informa la stessa OMS, mediante un comunicato pubblicato su The Lancet Public Health lo scorso 4 Gennaio, intitolato proprio No level of alcohol consumption is safe for our health, nel quale vengono sottolineati anche i rischi derivanti dal consumo moderato, causa secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità della metà dei tumori attribuibili all’alcol nella regione europea.

Piuttosto, anche per valutare la  supposta mancanza di efficacia del provvedimento irlandese, bisognerebbe approfondire i modelli di consumo dell’alcol, a partire dalle differenze fra quelli nord europei e mediterranei. Come fatto anche negli studi italiani condotti da Franca Beccaria, che hanno sottolineato come il controllo sociale (e ancor prima familiare) produca maggiore consapevolezza e moderazione nei consumatori. Persone che usano sostanze, in questo caso alcol, che anche durante il periodo del lockdown hanno dimostrato capacità di autoregolazione nemmeno prese in considerazione dalla politica istituzionale.

Torna utile il confronto con il tabacco istituito in precedenza. Stando ai dati Istat (serie storica 1980-2019), la percentuale di fumatori italiani è diminuita di 16,5 punti percentuali, da 36% a 18,4%. Un sostanziale dimezzamento, frutto di politiche tese alla sensibilizzazione, di divieti e restrizioni razionali, come nel caso della legge Sirchia o dell’obbligo di tessera sanitaria al fine di rifornirsi presso i distributori automatici, e di campagne di informazione incentrate sui danni per la salute. È in base a ciò che il punto di vista di Da Re si rivela erroneo: la presenza di consumatori più informati non penalizza il prodotto, piuttosto indirizza l’utilizzo verso modelli meno dannosi a livello personale, e, di conseguenza, a livello sociale. E, del resto, la diminuzione del numero di fumatori non ha mai messo a rischio la sopravvivenza economica dell’industria del tabacco, così come innalzamento dell’età del primo consumo e riduzione del numero dei decessi rappresentano piuttosto risultati ben più rimarchevoli.

In conclusione, ciò che in particolare andrebbe sottolineato di questo caso ha a che fare con quegli aspetti riferibili a una questione più volte emersa nell’ambito del dibattito italiano sulla droga – termine che alle nostre latitudini va incontro a impiego quanto mai improprio: la fondamentale distinzione fra uso e abuso, e ancora fra i diversi modelli di consumoSe l’abuso è stato identificato a più riprese come unico paradigma di consumo applicabile alle sostanze illegali, e utilizzato come principale argomentazione a sostegno del divieto di queste ultime, appare quantomeno curioso come, quando il discorso si sposta sull’alcol, siano gli stessi sostenitori del proibizionismo a richiamarsi al principio per il quale il semplice consumo non sia di per sé indice di dipendenza patologica, né che esso debba automaticamente degenerare in utilizzo incontrollato e compulsivo. E in questo, sì, come sostenuto da Da Re, il problema evidentemente sta altrove.

fonte: Fuoriluogo

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