Un confronto onesto e competente sulla psichiatria è sempre più urgente. di Antonello D’Elia

Convocata ormai quotidianamente per via mediatica la psichiatria è al centro dell’attenzione come non mai negli ultimi anni.

Tutto era iniziato con la estensione oltre ogni confine del costrutto di salute mentale, passato dal designare un approccio comunitario alla sofferenza mentale a un generico contenitore di disagi e disturbi in cui mettere tutto quello che turba e ci interroga in quanto umani, dalla pandemia al disadattamento, dalle tante possibili diversità alle patologie conclamate, dal bonus psicologi alla violenza di strada, dalle diagnosi tradizionali ai neologismi tirati fuori per descrivere in modo ‘scientifico’ l’esistente.

Ma poi a essere chiamata in causa è stata proprio la psichiatria. Il tristissimo episodio che ha visto la morte della psichiatra Barbara Capovani è stato seguito da altri eventi, per fortuna meno cruenti, che rimbalzano giornalmente sulla piazza mediatica e riconducono il dibattito al problematico binomio che combina psichiatria e giustizia, e al ricorso sempre evocabile a soluzioni reclusive e segreganti il cui scopo sarebbe di proteggere la società dalla violenza inestricabilmente legata alla follia.

Se al principio alcuni hanno accusato la legge 180 e alcuni dei suoi sostenitori, ad essa attribuendo i fatti di cronaca accaduti, sta poi affiorando l’esigenza di un confronto onesto e competente su quelli che sono i problemi pratici e teorici con cui ci dobbiamo misurare. Perché i problemi ci sono e sono seri.

Dunque la 180 non è in discussione, come confermato da autorevoli esponenti della psichiatria istituzionale: non lo è la questione dei diritti alle cure, non lo è quella della dimensione medica e sanitaria di quelle cure e nemmeno quella di una disciplina medica che non può e non vuole diventare, o tornare ad essere, il braccio armato della giustizia, vestito di camice bianco.

Né ci pare possano essere poste a rischio tutte quelle pratiche che ne hanno accompagnato l’attuazione: tuttalpiù sarebbe arrivato il momento di valutare e misurare seriamente l’efficacia di tutte quelle azioni complesse, cliniche ed extracliniche, in termini di salute. Non è in discussione neppure l’impianto organizzativo concepito per prevenire l’abbandono attraverso l’articolazione dipartimentale che traccia percorsi che vanno dal trattamento in acuzie alla presa in carico territoriale e alle pratiche di inclusione sociale, sintetizzabile nel termine pur controverso di riabilitazione.

Un impianto migliorabile, certo, a partire dalla possibilità di intercettare modalità di sofferenza che non trovano accoglienza nella stanca rete di servizi territoriali, ridotta peraltro per quantità e personale a dispensari ambulatoriali. Questa apertura al sociale richiederebbe soluzioni mature che non passano certo per la misera deregulation del bonus psicologico, ma neppure per l’offerta di tanti presìdi specialistici quante sono le cosiddette nuove patologie emergenti.

Quindi, se non è in discussione la 180 cosa lo è?

In primo luogo la convinzione che la psichiatria possa, sappia o debba occuparsi direttamente e con i suoi mezzi di quelle persone che adottano forme di proiezione sull’altro della violenza, modi di devianza e delinquenza che, in mancanza di migliori termini e concettualizzazioni, vengono rubricati come ‘disturbi antisociali’ : quelli in cui le ‘cose’ sono gli altri esseri umani, trattati perversamente come oggetti e ridotti a strumenti della propria soddisfazione, del proprio potere, quindi non riconosciuti come ‘altri’ in una categoria in cui annoverare molti criminali e pressoché tutti gli autori di delitti di genere.

E anche alcuni individui i cui comportamenti mirano al possesso dell’altro, fisico o mentale, e tradiscono a stento l’angoscia di esserne posseduti: parliamo di alcune organizzazioni psichiche e relazionali che si centrano intorno alla gelosia o alla persecutorietà, fenomeni, come noto, psicopatologicamente molto vicini tra loro.

Per costoro la sofferenza psichica, quella di cui si occupa la psichiatria e di cui, se va bene, dispone di strumenti operativi e concettuali, è negata e comunque oramai così lontana, nel passato remoto della sua origine, che è stata sostituita da comportamenti, cortocircuiti di pensiero, modi di stare al mondo e di relazionarsi con gli altri, sempre più lontani dalla critica e dalla consapevolezza.

Quali nuovi ambiti aprire per adeguare i sistemi di cura e di contenimento che lo stato appronta nei confronti del modo con cui si presentano sulla scena pubblica certi fenomeni? L’omicidio della dottoressa Capovani ha avviato, oltre che comprensibili reazioni nell’opinione pubblica e tra gli operatori, una rinnovata riflessione sugli strumenti legislativi, giuridici e sanitari per poter prevenire, trattare, isolare gli attori di tali comportamenti violenti attribuibili proprio a questa categoria di persone sinteticamente descritte in precedenza e riconducibili a una modalità di devianza ‘antisociale’.

C’è chi sbrigativamente si è schierato per l’apertura e la moltiplicazione di nuove REMS, una versione aggiornata della soluzione reclusiva, applicata ai rei folli e i folli rei.

C’è chi si è pronunciato per una soluzione carceraria: colui che delinque vada in carcere dove può essere curato, visto che il suo delitto è stato propiziato da una condizione psichica patologica.

C’è poi chi punta sulla necessità di rivedere gli articoli del C.P. riguardanti l’imputabilità inserendo nel codice diagnosi mediche a cui limitarne l’applicabilità, ovvero, come da altri proposto, nella prospettiva della parità di diritti di tutti, qualunque sia la condizione psichica in cui versano, pur riconoscendo la necessità di cure.

Ora, sotto la spinta dei fenomeni descritti e quella dei recenti fatti di cronaca, invece che cercare soluzioni ‘facili’, scorciatoie mirate a rassicurare opinione pubblica ed elettorati, che potrebbero avere come esito solo quello di aumentare la confusione ed estendere a dismisura quell’area ‘grigia’ di non matti e non delinquenti si dovrebbe dare corso a un processo di vera riforma dell’ambito psichiatrico/giudiziario.

E questa sarebbe la vera novità, la vera innovazione che potrebbe introdurre cambiamenti di passo non effimeri in un ambito in cui ad essere in difficoltà sono sia gli psichiatri che i giudici, sia la sanità che la giustizia, come si è visto tragicamente, seguendo i passaggi che hanno preceduto la morte della dottoressa Capovani.

Psichiatri spaventati, minacciati invocano l’intervento di Amministratori di Sostegno divenuti, con l’ambigua estensione dei loro poteri, operatori sanitari aggiunti, cooptati in compiti clinici non a loro spettanti. Oppure chiedono aiuto, in funzione repressiva o preventiva, alle forze dell’ordine che, in assenza di direttive univoche, si barcamenano tra il ruolo di difesa della collettività e di prevenzione dei crimini e finalità non chiare della loro azione quando è in gioco una qualche supposta patologia mentale.

Comunque tutti rimandano alla magistratura il potere di porre vincoli giuridici e penali a chi compie atti minacciosi e violenti. Una magistratura che, in assenza di un referente affidabile nella psichiatria territoriale dei DSM impoveriti, svuotati e disorientati, se li rappresenta come un prolungamento della sua giurisdizione e chiede loro di eseguire impropriamente compiti di polizia e di controllo penitenziario.

In alternativa o al contempo, dispone ricoveri in SPDC o in via preventiva in REMS, identificate come luoghi sicuri, visti come meri sostituti dell’OPG, attraverso i quali la società può essere protetta. Si moltiplicano così le persone destinate a questo circuito e si determina un corto circuito perverso in quanto induce la domanda di sempre maggiori letti in REMS o in strutture analoghe, di cui alcune regioni apripista stanno già creativamente dotandosi. Come noto, tale soluzione è apprezzata anche da alcuni settori della psichiatria pubblica e dalle Regioni.

Psichiatria Democratica si è sempre spesa per la chiusura degli OPG e per introdurre modalità operative collaborative tra servizi psichiatrici pubblici e magistratura (i Protocolli Operativi licenziati dal Consiglio Superiore della Magistratura nel 2018). In nome di questa storica attenzione riteniamo che gli interventi sul Codice Penale (codice Rocco, ricordiamolo, promulgato nel 1930) siano una soluzione auspicabile ma che necessita di ponderatezza: il pericolo di modificarne due articoli all’interno di un corpus omogeneo è quello di innescare a catena conseguenze ingestibili e di procurare inevitabili impasse giuridiche e di gestione.

Non auspichiamo neppure l’introduzione di nuove leggi, frutto della convinzione che la via legislativa sia l’unica possibile per correggere, sulla carta, quanto non funziona. La strada maestra, pertanto, è quella di affrontare il problema nella sua complessità: stiamo parlando di come scongiurare una deriva in corso in cui, per ammissione quasi generale, la psichiatria si ritrova a gestire, senza averne gli strumenti (anzi, privata anche di quelli di cui dovrebbe disporre per assolvere i suoi compiti deontologici, disciplinari e sanitari) un certo numero di persone che non sono annoverabili nelle categorie diagnostiche correnti e che hanno con la sofferenza mentale un rapporto talmente ormai antico che è difficilmente rintracciabile, ovvero riconducibile ad uno stato di consapevolezza ed elaborabilità.

Quindi che fare? Incarcerare e curare in carcere? È quello il luogo dove restringere le libertà personali, prevenire il danno, proteggere la società? Questa soluzione andrebbe bene se il problema delle carceri in questo paese non fosse desolantemente trascurato, se non ci fossero un cronico sovraffollamento, fiumi di sostanze circolanti e una pletora di autori di reato legati a spaccio e consumo, se non ci fosse aperto e irrisolto il tema del recupero, se non si ricorresse spesso per via farmacologica e in mancanza di altro a sedare manifestazioni di insofferenza o di indocilità (quello che avviene in via ‘preventiva’ nei CPR, tanto per ricordarlo…), se non ci fosse un numero eccessivo di suicidi tra i detenuti e di suicidi e comportamenti violenti tra gli agenti di polizia penitenziaria, perché, lo sappiamo, la violenza ambientale è esportabile e la si reca a casa dopo il lavoro insieme alla divisa…

Urge allora un’azione coordinata tra parti dello Stato perché si riapra, in modo non occasionale, strumentale e sensazionalistico, un confronto sui temi dei confini tra sanità e giustizia. I Ministeri della Sanità e della Giustizia possono collaborare per mettere a punto misure efficaci, coerenti e durature. A tempi lunghi una revisione sapiente e competente del Codice Penale sarebbe auspicabile, con un’attenzione specifica non solo agli articoli relativi all’imputabilità ma a tutti quelli ad essi collegati.

Più urgente si pone invece una seria riconsiderazione della gestione delle carceri iniziando dalle articolazioni sanitarie e psichiatriche dotandole di mezzi, luoghi e personale adeguati, per poi proseguire, in nome del diritto e della civiltà, verso un adeguamento della rete carceraria e del suo funzionamento. In ogni caso, le REMS, in carico alla Sanità, non possono in alcun modo sostituire il carcere; non appare necessario aumentarne il numero, visto che gli OPG, alla loro chiusura ospitavano, in gran parte inappropriatamente, circa 1000 persone e che la rete nazionale delle REMS finirebbe per accoglierne una cifra multipla.

Se non ipotizziamo una recrudescenza epidemica della follia violenta (sic!) ci dobbiamo interrogare sulla reale utilità un aumento, tenendo conto anche dei costi in termini di fondi pubblici che potrebbero essere dirottati verso ben altri interventi in termini di efficacia ed appropriatezza. Non si può dilapidare denaro per costruire nuove REMS per rispondere a un’emergenza creata o per sfruttarne la dimensione simbolica di luoghi della reclusione, come sono intesi da chi ne reclama l’ampliamento. In ogni caso non si può concepire la psichiatria come competenza di economisti, amministratori e magistrati.

fonte: QS

Antonello D’Elia – Presidente di Psichiatria Democratica
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