EU Equal Pay Day: per le donne due mesi di lavoro senza paga. di Alessandra Casarico e Salvatore Lattanzio

L’Eu Equal pay day ci ricorda che dal 3 novembre e fino al 31 dicembre è come se le donne europee lavorassero gratis, rispetto ai colleghi maschi. In Italia si aggiunge il problema della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro.

Differenziali salariali in Europa e in Italia

Il differenziale salariale medio tra uomini e donne nei paesi europei è pari al 16,2 per cento. Per questa ragione, sabato 3 novembre è il cosiddetto “EU Equal pay day”, una giornata simbolica che segna la data a partire dalla quale è come se le donne “smettessero” di essere remunerate per il loro lavoro, con il 16 per cento dell’anno (58 giorni) ancora da trascorrere. L’individuazione di questa giornata dipende dall’anno preso in considerazione, a seconda del differenziale salariale registrato. È perciò significativo che anche nel 2018 l’Equal pay day cada il 3 novembre come lo scorso anno, senza alcun segno di miglioramento.

In Italia l’Equal pay day sarebbe più in là nell’anno, intorno al 12 dicembre. Il divario salariale tra uomini e donne italiani ammonta infatti al 5,3 per cento, il secondo valore più basso tra i paesi dell’Unione Europea.

Una buona notizia? Non esattamente. Il dato italiano maschera infatti una situazione di significativo svantaggio delle donne rispetto agli uomini nel mercato del lavoro. Anzitutto, l’Italia registra uno tra i maggiori differenziali nella partecipazione al mercato del lavoro tra uomini e donne, con un valore pari al 19,8 per cento contro una media europea di 11,5 per cento. Sono in particolare le donne con bassi livelli di istruzione e bassi salari potenziali a rimanere fuori dal mercato del lavoro, riducendo il gap salariale italiano rispetto a quello osservato negli altri paesi europei. Inoltre, il risultato per l’Italia è caratterizzato da una notevole eterogeneità tra settore pubblico e privato. Infatti, nel settore privato il differenziale di genere è pari al 17,9 per cento, un valore in linea con gli altri paesi europei, contro il 4,4 per cento del settore pubblico.

Un divario che cresce con l’età

Le statistiche rappresentano dati grezzi, ossia non tengono conto delle differenze nelle caratteristiche individuali dei lavoratori e delle imprese che li impiegano. È tuttavia importante tenere conto di questi elementi per capire cosa determini l’apertura e la persistenza del divario salariale e per individuare misure adatte a contenerlo.

Utilizzando un campione dei dati Inps sulle storie lavorative e contributive dei lavoratori italiani nel settore privato cerchiamo di analizzare l’evoluzione delle disuguaglianze salariali di genere lungo la vita lavorativa. Focalizzandosi sul periodo 1985-2012 per i lavoratori a tempo pieno nati tra il 1960 e il 1970, la figura 1 mostra l’evoluzione dei salari medi lordi maschili e femminili tra i 25 e 50 anni di età (asse di sinistra) e il relativo differenziale salariale (asse di destra). La figura mostra come quest’ultimo passi dal 9 per cento a 25 anni a circa il 18 per cento a 50 anni e rivela due fatti importanti. Il primo è che le donne in Italia pagano una penalità rispetto ai colleghi maschi già dall’ingresso nel mercato del lavoro. Può essere la conseguenza di una “segregazione” in occupazioni o imprese meno remunerative, un fenomeno che abbiamo già documentato. Il secondo è che il differenziale tende ad aumentare nel corso degli anni per via di una diversa traiettoria nella crescita dei salari maschili e femminili. La figura 2 mostra infatti che, eccetto che per gli esordi della vita lavorativa, la crescita salariale maschile è più accentuata di quella femminile, determinando un ampliamento del divario salariale di genere medio.

Figura 1 – Salari lordi medi giornalieri (euro, asse di sinistra) in termini reali e differenziale salariale di genere (percentuale, asse di sinistra) lungo la vita lavorativa

Figura 2 – Crescita salariale di uomini e donne tra 25 e 50 anni

Le tre componenti

Cosa determina questa diversa crescita nei salari di uomini e donne? L’aumento di salario può avvenire sia all’interno dell’impresa in cui si lavora, oppure si può realizzare cambiando azienda. L’incremento salariale interno può a sua volta derivare da promozioni nella scala gerarchica o dalla maggiore esperienza lavorativa maturata, pur in assenza di promozione. Ovviamente, è molto difficile identificare le promozioni senza informazioni dettagliate sulle occupazioni, ma seguendo la letteratura economica identifichiamo come tali gli episodi di crescita dei salari di un lavoratore superiore di 10 punti percentuali rispetto alla media dei colleghi nella stessa impresa e nello stesso anno. Possiamo quindi scomporre il divario salariale cumulato nel corso della vita lavorativa nel contributo dei tre fattori appena individuati: crescita interna, dovuta a promozioni o a esperienza, e crescita dovuta alla mobilità tra imprese. La figura 3 riporta i risultati della scomposizione e mostra che sono le promozioni a spiegare gran parte del gender gap cumulato lungo la vita lavorativa. In media tra i 25 e i 50 anni, gli avanzamenti di carriera spiegano il 54 per cento del divario salariale cumulato, mentre la mobilità spiega il 20 per cento e la crescita salariale interna indipendente dalle promozioni spiega il rimanente 26 per cento.

Figura 3 – Scomposizione del gender gap cumulato nella crescita salariale

Il gap nelle promozioni può essere determinato dal lato dell’offerta di lavoro, se le donne sono meno inclini a chiedere una promozione per via di preferenze personali, un minor numero di ore lavorate o la difficoltà di conciliare il maggior contributo alla produzione domestica e alla cura dei figli o degli anziani con un lavoro più impegnativo. Oppure può dipendere dal lato della domanda di lavoro, se i datori di lavoro discriminano le donne o se incorporano aspettative negative sulle loro performance per via della possibile maternità. In entrambi i casi, c’è spazio per interventi correttivi. A livello di impresa, incrementando la conoscenza e il monitoraggio delle carriere maschili e femminili – come richiesto ad alcuni tipi di imprese dal decreto legislativo 254 del 2016 relativo alla pubblicazione di dati non finanziari –, promuovendo la flessibilità di orario, offrendo mentoring alle donne e rafforzando l’offerta di servizi di cura, a livello aziendale o in collaborazione con le istituzioni del territorio.

La politica, dal suo canto, dovrebbe mantenere alta la guardia sul lavoro delle donne, sulla disuguaglianza di genere e sulle politiche che possono ridurla. Dai congedi di paternità – che dovrebbero essere estesi rispetto agli attuali quattro giorni per contribuire a un vero riequilibrio dei compiti di cura e ai quali invece la legge di bilancio non sembra destinare risorse neanche nella loro forma attuale – al sostegno ai servizi di cura. Queste misure non determinerebbero certo un Equal pay day al 31 dicembre di ogni anno, ma contribuirebbero senz’altro a spostare la data sempre più in là nel tempo.

Alessandra Casarico è Professore Associato di scienza delle finanze all’Università Bocconi e direttore dell’area Tassazione e Stato sociale del Centro di Ricerca Dondena sulle dinamiche sociali e le politiche pubbliche. E’ inoltre Research Fellow del CESifo di Monaco. Ha conseguito il dottorato di ricerca in economia all’Università di Oxford e più di recente ha trascorso periodi di studio e ricerca all’INET, Institute for New Economic Thinking, Oxford Martin School. I suoi interessi di ricerca si rivolgono all’economia pubblica, ai sistemi di welfare e all’economia di genere. Ha pubblicato su riviste scientifiche internazionali di prestigio ed è autrice di libri con editori nazionali e internazionali. E’ attiva nel dibattito accademico e di policy in Italia e all’estero sul tema dell’occupazione femminile e delle politiche che possono sostenerla.
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Salvatore Lattanzio sta svolgendo un dottorato di ricerca in economia all’Università di Cambridge. Si interessa di temi legati alla disuguaglianza di genere nel mercato del lavoro. Ha conseguito la laurea magistrale in Economic and Social Sciences, e precedentemente la laurea triennale in Economia e Finanza, presso l’Università Bocconi.
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Fonte: Lavoce

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