Senza la legge 833 del 1978 italiani più fragili e più poveri. di Mariapia Garavaglia

Mariapia Garavaglia

Gli Italiani si sentono celebrare spesso il nostro sistema sanitario come uno dei migliori al mondo (il secondo se non il primo) ma, quando hanno esigenze di cura o di ricovero, pensano che la realtà non corrisponda alla propaganda. In effetti dalla sua istituzione – la Riforma Sanitaria del 1978 – in Italia i servizi sanitari e sociali si presentano differenziati e diversificati.

La legge n. 833 del 1978 avrebbe la finalità di attuare l’articolo 32 della Costituzione che recita essere il diritto alla tutela della salute attuato secondo i principi dell’articolo 3.

La Riforma fu piuttosto una rivoluzione, in gran parte riuscita. Si concludeva una lunga storia che aveva visto la cura delle malattie non come diritto ma come possibilità, a seconda del ceto sociale.

Come per molte altre conquiste sociali, ormai divenute costume, le giovani generazioni non hanno la minima idea di quale fosse la situazione prima della legge 833; cosa fossero le mutue, chi vi era associato, quali prestazioni offrissero e per quanto tempo. Purtroppo anche nel lungo e intenso piano di studi della facoltà di medicina non è previsto l’insegnamento del sistema sanitario italiano, cosicché si potrà lavorare nei servizi senza aver minimamente conosciuto la loro organizzazione.

Il senso di appartenenza ad una istituzione, o a qualsiasi struttura, è molto condizionato dal grado di conoscenza della sua storia, delle motivazioni che ne hanno preparato l’approvazione e le dinamiche che ne causano una continua evoluzione.

La 833, approvata il 23 dicembre 1978, è entrata in vigore dal 1 gennaio 1979 ma non contemporaneamente in tutta Italia. Nasce con due handicap. Il Ministro che avrebbe dovuto avviarne l’attuazione era Renato Altissimo, liberale. Il suo partito, il PLI, non aveva votato la Riforma! Il Ministro che l’aveva preparata era stata Tina Anselmi (che fu la prima donna Ministro della Repubblica nel 1976 con la delega al Lavoro).

Inoltre una riforma, il cui cammino era stato avviato in anni di relativo benessere economico, entrava in vigore dopo la crisi economica degli anni ’70. La logica universalistica e il principio di equità avrebbero dovuto trovare nel meccanismo di finanziamento a carico della fiscalità generale il fondamento del solidarismo costituzionale, che ne aveva ispirato la proposta.

La domanda delle domande: è sostenibile ancora il nostro sistema sanitario e per quanto tempo?

Il contesto è caratterizzato da un mutato panorama demografico e, di riforma in riforma, di un eccesso di intermediazione politica: Stato, Regioni, Enti locali diversi e da un equivoco rapporto fra servizio pubblico e organizzazioni private, talché il Privato viene pagato coi risparmi della spesa nel comparto sanitario pubblico, impoverendola, senza che il mix pubblico privato realizzi una completa copertura dei bisogni, e piuttosto la moltiplicazione delle offerte.

Questo è un tema sensibile, perché il nostro sistema prevede la integrazione e complementarietà fra iniziativa statuale e libera. C’è una specie di delega decentrata normativamente affinché le Regioni possano programmare un’offerta di servizi sul territorio, che consenta la libertà di scelta del cittadino e il controllo di efficacia da parte della Istituzione.

Dall’ entrata in vigore della legge 833 sono dovuti trascorre 13 anni perché venisse approvato il primo piano sanitario nazionale, previsto dall’art. 53 della legge. È’ il “peccato originale” perché l’avvio della attuazione non ha ‘rivoluzionato’ come sarebbe stato necessario l’esistente, che ha continuato a convivere con le novità organizzative e amministrative; le difficoltà si sono protratte finora, basti pensare come  e’ stato a lungo difficile chiudere i piccoli ospedali. Pur di lasciar sopravvivere delle strutture inutili e pericolose si contorce la nomenclatura dei servizi per chiamarli ospedali di comunità, si allestisco Case della Salute, ambulatori integrati, ecc.

Un “magone” mi crea il Sud se penso alle carenze che continuano a cronicizzarsi. Anche per le regioni a sud di Roma le regole e i finanziamenti corrispondono alle medesime norme nazionali, ma la competenza primaria legislativa e gestionale è affidata alle Regioni. Dopo anni sono ancora interpellata perché trovi soluzioni al nord per pazienti che mi interpellano dal sud.

È inaccettabile che l’aspettativa di vita al sud sia inferiore di oltre tre anni rispetto al nord. È immorale e contro il principio di equità della legge 833 e il diritto all’ eguaglianza dell’art. 3 della Costituzione. I giovani meridionali che si laureano a Roma o in università al nord in medicina non tornano nei territori di residenza a praticare…Urge dopo 40 anni rivitalizzare il sistema più delicato per i cittadini affinchè possano esigere e praticare tutti gli altri diritti (e doveri): al lavoro, alla educazione, allo sviluppo sociale, ecc.

Ogni Regione, con i fondi della fiscalità, inventa ‘ riforme’ delle riforme, cambiando sigle e impedendo così una continuità professionale, che crea cultura nei servizi e nei cittadini.

A questi si deve innanzitutto e solamente la centralità nel modo di progettare e attuare le risposte ai loro bisogni. Politici, amministratori e operatori sono al loro servizio: non avrebbero altra giustificazione per lavorare nel Sistema Sanitario Nazionale. Il Governo “del cambiamento “ha un campo in cui dimostrarlo, in meglio.

E tra gli argomenti più importanti che il nuovo governo deve affrontare non è apparso nessun cenno ad un servizio che interessa davvero i cittadini italiani e cioè la tutela della salute.

È certamente una priorità salvaguardare il sistema sanitario nazionale per non togliere i servizi soprattutto ai più bisognosi. Un governo, che voglia qualificarsi per un impulso allo sviluppo del paese e nello stesso tempo rigorosamente salvaguardare i servizi senza cercare l’alibi per tagliare prestazioni, deve rivolgersi alle più moderne tecnologie che aiutino a non disperdere risorse, evitare sprechi, ridurre i tempi e dare sicurezza ai cittadini di ottenere le migliori cure possibili ed anche, contestualmente le meno costose e più efficaci.

E’ passato quasi inosservato – curioso per forze politiche che si affidano ai clic -l’atto di indirizzo che nell’ambito della conferenza Stato-Regioni nel luglio 2016 ha preparato l’intesa sul “patto per la sanità digitale”. E’ volto al conseguimento degli obiettivi di efficienza, trasparenza e sostenibilità del SSN attraverso l’impiego sistematico dell’innovazione digitale in sanità. Il Patto è concepito come un piano strategico, unitario e condiviso, attraverso il quale è possibile realizzare modelli assistenziali ed organizzativi in grado di far fronte alle concrete necessità, sempre nuove e diverse, del SSN.

In tale prospettiva, la digitalizzazione viene concepita come un’opportunità di miglioramento dell’assistenza sanitaria, nonché di crescita economica, su più versanti, attraverso: l’implementazione e l’utilizzo di piattaforme e soluzioni ICT interconnesse ai vari livelli di governo in grado di garantire continuità assistenziale; adeguati livelli di care management; la deospedalizzazione, il cui scopo precipuo è l’abbattimento dei costi sanitari; l’utilizzo e la diffusione del Fascicolo Sanitario elettronico (FSE); la piena cooperazione tra tutti i soggetti coinvolti nella filiera della salute e del benessere.

E’ evidente che la digitalizzazione rende efficiente il sistema dei servizi rientranti nell’ambito della telemedicina, come il tele-salute (presa in carico del paziente cronico con trasmissione a distanza dei rispettivi parametri clinici interpretati e gestiti dai professionisti sanitari all’interno di un piano assistenziale individuale) il tele-consulto, il tele-refertazione, il tele-diagnosi, il tele-monitoraggio ed il tele-riabilitazione.

Un piano strategico di sanità elettronica richiede risorse economiche dedicate: l’adozione di piattaforme e di soluzioni capaci di supportare un nuovo modello di servizio sanitario basato sui pilastri della continuità assistenziale, del care management, della deospedalizzazione e della piena cooperazione tra tutti i soggetti coinvolti nella filiera della salute. Il tema del finanziamento del piano diventa quindi un elemento programmatico pluriennale.

Si ricordi il famoso piano di Donat Cattin che dispose un fondo di 30 mila miliardi di lire (art. 20, legge finanziaria 1988) per la riqualificazione della rete ospedaliera. I politici non promettano più ospedali tradizionali perché soprattutto questi enti subiranno le maggiori innovazioni: gli ospedali digitali saranno ‘abitati’ da robot e da strumentazione che non sono più fantascientifici. La ricerca clinica sarà protagonista.

Serve dunque che il governo abbia la medesima visione e coraggio per destinare al Piano un fondo ad hoc, perché in tal modo attiva processi tecnologici innovativi con ricadute negli investimenti strutturali e formativi. Un volano per la ripresa generale e per mantenere il prestigio che il nostro SSN nonostante tutto ancora mantiene. Nel quarantesimo compleanno del SSN sarebbe un modo per recuperare la lungimiranza di coloro che lo hanno pensato, voluto e attuato.

Purtroppo come accade troppo spesso il Patto ha bisogno di una implementazione attraverso l’adozione di appositi decreti ministeriali che definiranno tempistiche e modalità di rilevazione delle prestazioni erogate. E ancora – purtroppo!- sarà importante che venga meno la pessima abitudine di non fornire e dare il valore necessario al flusso informativo che fa capo alla cabina di regia, per misurare qualità, efficienza, appropriatezza e costo di ogni singola prestazione sanitaria.

Non sfugge ai lettori che con non è ancora completamente abilitato il Fascicolo Sanitario elettronico e che le tessere sanitarie non sono uguali nelle diverse Regioni!

A queste ‘tradizionali’ lentezze e difficoltà si aggiungono le norme antiche e nuove in materia di privacy. Dal 25 maggio è attivo il GDPR, il nuovo regolamento europeo per la tutela dei dati. Vale la pena ricordare che non sono i dati ad essere protetti bensì, attraverso la loro tutela, si serve la dignità della persona, le sue libertà, e per quanto riguarda la salute, i suoi fondamentali bisogni.

 

Mariapia Garavaglia è stata Ministro della Salute  negli anni 1993-1994

Fonte: Quotidiano Sanità

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