Reddito di cittadinanza: il punto dopo il decreto. di Cristiano Gori

Approvato il decreto che istituisce il reddito di cittadinanza. Bene la priorità data ai più deboli e il recupero della dimensione sociale della povertà. Tra gli aspetti negativi, c’è l’insistenza sul simbolo dei 780 euro e la fretta a fini elettorali.

Dagli anni Ottanta al reddito di cittadinanza

Non si può giudicare il reddito di cittadinanza senza considerare la storia del nostro paese. La richiesta di un adeguato investimento pubblico contro la povertà è stata avanzata, da più parti, a cominciare dagli anni Ottanta, ma si è a lungo scontrata con il profondo disinteresse delle forze politiche di ogni colore verso i più deboli. Solo nel 2017, con l’introduzione del reddito d’inclusione, l’allora governo di centrosinistra realizzò un primo, seppur contenuto, stanziamento. Ora il reddito di cittadinanza incrementa i fondi per il contrasto della povertà di 6 miliardi di euro annui, passando dai 2 già previsti per il Rei a 8 totali. I 6 miliardi addizionali sono il più ampio trasferimento di risorse pubbliche a favore dei poveri nella storia d’Italia.

Gli inclusi e gli esclusi

Si stima che beneficeranno del reddito di cittadinanza circa 1,3 milioni di famiglie, quasi il triplo delle 460 mila che hanno ricevuto il Rei nel 2018. Tuttavia, siamo sempre sotto gli 1,8 milioni di famiglie in povertà assoluta nel nostro paese. Rimane poi da verificare l’ipotesi che, a causa di diverse storture nel disegno della misura, la ricevano anche alcuni nuclei che non si trovano in condizioni di povertà.

Quanto agli esclusi, si possono individuare tre principali categorie. Primo, alcuni stranieri, discriminati dall’introduzione del criterio dei 10 anni di residenza per accedere alla misura. Secondo, vari nuclei familiari del Nord, a causa di soglie di accesso uniche in un pese con notevoli differenze territoriali nel costo della vita. Terzo, diverse famiglie con quattro o più componenti, come esito della decisione di privilegiare quelle di piccole dimensioni (a partire dai nuclei di una sola persona).

Il simbolo prima di tutto

780 euro mensili per una persona sola priva di risorse economiche coincidono con la soglia di povertà relativa contenuta nell’ipotesi originaria del reddito di cittadinanza, che costava 17 miliardi annui e si rivolgeva a 10 milioni di individui. Poiché questa cifra è diventata un simbolo del M5s, si è deciso di mantenerla anche nella versione finale, con minori finanziamenti (8 miliardi rispetto a 17) e una platea più ridotta (poveri assoluti e non relativi). La conseguenza è che si dà troppo ai nuclei di piccole dimensioni, innanzitutto i single, e relativamente poco a quelli con più componenti.

La distribuzione dei maggiori fondi disponibili risulta, dunque, iniqua: l’importo medio dei single aumenta del 102 per cento rispetto al Rei, mentre al crescere della numerosità familiare l’incremento si assottiglia, sino ad arrivare a +40 per cento per i nuclei di 5 e più componenti. Non stupisce, dunque, che il reddito di cittadinanza sia più alto della soglia di povertà assoluta per molte famiglie sino a 3 componenti (soprattutto nel Meridione, dato l’utilizzo di una soglia unica nazionale) e sempre inferiore per quelle con almeno 4 membri. Inoltre, l’Ufficio parlamentare di bilancio segnala che, per le persone sole, il trasferimento è superiore ai valori medi di analoghe misure in molti paesi europei, mentre per le famiglie con due o più figli è inferiore.

Il quadro delineato penalizza le famiglie con figli – dove la povertà è particolarmente diffusa, trascurando così l’obiettivo di ridurne la trasmissione tra le generazioni – e crea un particolare disincentivo all’offerta di lavoro dei componenti di nuclei ridotti, innanzitutto i single.

L’obiettivo occupazionale non è più predominante

Sino a qualche mese fa il progetto del governo era un ibrido: il reddito di cittadinanza era una politica contro la povertà nei beneficiari, ma una politica contro la disoccupazione negli interventi previsti. Il positivo investimento nel rafforzamento dei centri per l’impiego si traduceva, infatti, nel prevedere quasi esclusivamente interventi d’inclusione lavorativa, relegando ai margini i percorsi d’inclusione sociale (di responsabilità dei comuni). Non si riconosceva così la natura sfaccettata e multidimensionale della povertà, come invece faceva il Rei.

Il governo ha però modificato la propria impostazione. Il testo finale del decreto, infatti, assegna un ruolo paritario ai percorsi di inclusione lavorativa e a quelli di inclusione sociale, recuperando così una posizione di rilievo per i comuni. Il reddito di cittadinanza, dunque, è diventato una misura che riconosce i molteplici volti della povertà e prevede, di conseguenza, un articolato insieme d’interventi. Inoltre, l’organizzazione dei percorsi di inclusione sociale di titolarità comunale è la stessa prevista dal Rei: non si disperde così il lavoro compiuto sinora a livello locale con quella misura.

Si registra, però, un peggioramento nel coordinamento tra i soggetti della rete territoriale. Infatti, mentre il Rei prevedeva precise modalità di raccordo tra comuni e centri per l’impiego, il reddito disegna un sistema dei servizi estremamente frammentato, rendendo complicato il collegamento tra i diversi attori nella fase operativa.

Le conseguenze delle elezioni europee

Il reddito di cittadinanza è stato introdotto con una velocità eccessiva, per un preciso scopo: raggiungere il maggior numero di beneficiari nel più breve tempo possibile, sperando di ricavarne consensi nelle elezioni europee di maggio.

Il governo non ha, però, considerato un punto decisivo, ben noto a chi lavora nei territori: la costruzione di risposte in grado di sostenere le persone in difficoltà richiede tempo. Il reddito entra in vigore senza che siano stati affrontati numerosi nodi operativi – ad esempio la predisposizione dei sistemi informativi – e mentre il significato di varie parti del decreto non è ancora chiaro a tanti tra i soggetti chiamati ad attuarlo.

Sarebbero state preferibili una partenza meno affrettata e la previsione di un ampliamento graduale dell’utenza, distribuito su più annualità, così da assicurare ai servizi locali di welfare il tempo necessario per rinforzarsi, monitorando il percorso realizzativo e intervenendo dove necessario per correggerlo. La storica carenza di servizi di questo tipo nel nostro paese richiede non solo maggiori finanziamenti dedicati – oggi disponibili – ma anche un lasso di tempo adeguato per potenziarli in modo consono. Nei prossimi mesi, dunque, una misura dichiaratamente focalizzata sull’inclusione rischia di risolversi, per numerosi beneficiari, in una pura distribuzione a pioggia di contributi economici.

fonte: LAVOCE.INFO

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