Una morte in contenzione che reclama risposte. di Stefano Cecconi, Giovanna Del Giudice

Elena, 19 anni, è morta legata al letto di un ospedale. Chiusa in una stanza del reparto di psichiatria, senza alcuna possibilità di sfuggire al fuoco di un incendio. Della giovane donna sappiamo poco e oggi ci rimane solo un corpo carbonizzato. È accaduto a Bergamo, l’antivigilia di Ferragosto. Una tragedia orribile, su cui spetta alla magistratura fare luce, ma che certamente reclama risposte chiare e ineludibili.

Perché Elena è stata legata? Perché un essere umano può essere legato in un luogo di cura? Nel comunicato diramato dall’Ospedale di Bergamo è scritto che “La paziente deceduta era stata bloccata pochi istanti prima dell’incendio a causa di un forte stato di agitazione” e, successivamente, che “la paziente aveva tentato il suicidio.  Possibile che non ci fosse altro modo di affrontare il dolore di Elena, il suo grido di aiuto, l’agitazione, l’aggressività rivolta contro di sé? Bisognava inevitabilmente legarla ad un letto e lasciarla sola nella stanza, proprio nel momento di massima sofferenza?

Queste, ed altre, domande emergono oggi a partire dalla sua morte ma valgono per le tante, troppe strutture sanitarie dove i pazienti vengono legati.

Sappiamo infatti che la contenzione meccanica è una pratica ancora largamente diffusa nei Servizi Psichiatrici ospedalieri di Diagnosi e Cura e in molte strutture sociosanitarie. Lo ha denunciato nel 2015 il documento del Comitato Nazionale di Bioetica e nel 2017 il rapporto della Commissione diritti umani del Senato presieduta da Luigi Manconi.

Conosciamo le difficoltà degli operatori costretti, in troppe situazioni, a lavorare in condizioni di carenza di organico, in ambienti inadeguati o sovraffollati. Sappiamo che quotidianamente il sindacato ha aperto vertenze per contrastare i tagli, rivendicare finanziamenti e organici adeguati. Ma sappiamo pure che la contenzione non è un frutto solo di queste carenze e difficoltà.

Quando si fa ricorso alla contenzione conta l’orientamento, la  cultura  degli operatori, dei dirigenti in primis, il modello organizzativo dei servizi di salute mentale, ben oltre i comportamenti  e  le  caratteristiche dei  pazienti e il numero del personale. Ed esiste un legame tra il ricorso o meno alla contenzione e la debolezza o la forza dei servizi di salute mentale territoriali.

Esistono in Italia circa 30 servizi psichiatrici ospedalieri no restraint che dimostrano  che  si  può  fare  a  meno  di  legare. Servizi capaci anche nelle situazioni più estreme, di assicurare dignità e diritti a tutti, utenti ed operatori. E vi sono esperienze in cui singoli operatori compiono scelte coraggiose e sono riusciti, pure se osteggiati, ad opporsi e a convincere gli altri.

La contenzione è dunque evitabile. Lo dimostra il percorso avviato dalla Regione Emilia Romagna, tuttora in corso. In Lombardia l’AST di Lecco, da pochi mesi, ha avviato un progetto per il superamento della contenzione in tutte le strutture socio sanitarie. Progetto costruito con la partecipazione e il coinvolgimento di operatori e sindacato, utenti e familiari. Che prevede formazione, modifiche organizzative e strutturali.

E allora proprio di fronte alla tragedia di Bergamo, noi ci aspettiamo che un segnale forte arrivi dalla Regione Lombardia con l’approvazione di un piano regionale per il superamento della contenzione. Ma non bastano più atti isolati: serve un iniziativa coerente, nel solco della democrazia e dei diritti, in tutto il Paese. In questo senso va subito ripresa la proposta lanciata nella recente Conferenza nazionale per la Salute Mentale del giugno scorso è a Governo, Regioni e Parlamento: aprire un cantiere per superare la contenzione e ogni forma di violazione dei diritti delle persone con sofferenza mentale, a sostegno della campagna nazionale per l’abolizione della contenzione “…E tu slegalo subito”.

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