Quale idea di welfare nel “documento Colao”? di Elena Granaglia

Questa crisi, con le immani sofferenze che ha prodotto e produrrà, rafforza ancor più la necessità di ripensare il welfare. In questa prospettiva, nonostante la tiepida accoglienza da parte della maggioranza di governo, il documento elaborato dal comitato di esperti coordinato da Vittorio Colao offre un’occasione importante di riflessione.

Anche se lo abbiamo dimenticato per diversi anni, supinamente attratti nelle maglie di TINA (There is no alternative), la democrazia è il luogo del confronto, aperto, acceso, informato e ragionevole fra visioni diverse di società, come non si stanca di ribadire il Forum Diversità Disuguaglianze. In questo confronto, una proposta coerente e strutturata come quella offerta dal documento, dovrebbe spingere anche chi è ad essa contrario a dare forma ad un’espressione del proprio dissenso basata su ragioni accessibili a terzi, andando oltre le sensazioni di fastidio e di non riconoscimento emotivo.

La tesi che vorrei sostenere è che il documento consegni una idea complessiva di welfare con diversi punti critici sotto il profilo della giustizia sociale se non addirittura della possibilità stessa di attuare le misure auspicate. Ciò resta vero anche se molte delle misure auspicate siano del tutto condivisibili. Penso al pacchetto di misure per garantire la parità di genere, contro le tante discriminazioni a danno delle donne cui il nostro welfare non ha finora offerto risposta. Penso alle politiche di contrasto alla povertà dei bambini e alle povertà educative, di sviluppo di un welfare di prossimità attento all’eterogeneità nelle condizioni di bisogno e, dunque, alla personalizzazione degli interventi e di investimento nelle infrastrutture sociali. Ancora, penso a un’altra politica, anch’essa del tutto carente nel nostro paese, la politica di pari opportunità per le persone con disabilità. Penso, altresì, alla proposta di assegno unico per i figli. E gli esempi potrebbero continuare includendo le politiche di estensione degli ammortizzatori ai lavoratori non standard e, seppure sia un po’ sovra-citato, il diritto a tutti di potere accedere a un pc e alla banda larga.

Tre sono i punti più discutibili. Il primo concerne la sottovalutazione della dimensione universale e di bene comune del welfare. Certo, le donne sono al centro del documento e questo contribuisce all’universalismo. Certo, l’assegno per i figli e le estensioni degli ammortizzatori vanno nella direzione dell’universalismo, ma poi i riferimenti, nel documento, sono costantemente ai fragili, a chi sta in difficoltà, agli ultimi che restano indietro. Il che allude al meglio a un universalismo selettivo. Scrivo “al meglio”, in quanto l’invocazione stessa dell’universalismo è spesso tradita da ricadute nella categorialità. Basti ricordare la proposta del reddito di libertà riservata alle donne che hanno subito violenza. Ovviamente, bisogna sostenere queste donne, ma perché solo a loro attribuire un reddito di libertà? Oppure, si ricordi la proposta di accentuazione delle agevolazioni al welfare aziendale che è fonte inevitabile di iniquità orizzontali.

Ma, trascuriamo questi limiti (delle iniquità del welfare aziendale mi sono già occupata sul Menabò). L’universalismo selettivo, oltre ai rischi di lasciare fuori qualche fragile (neppure l’indicatore di povertà assoluta, tanto richiamato, è in grado magicamente in grado di selezionare tutti gli svantaggiati) e di restare interventi poveri, a causa dello scarso potere contrattuale dei beneficiari, dimentica una funzione cruciale del welfare: quella di creare le basi comuni, le capacità fondamentali di cui tutti abbiamo bisogno per costruire i singoli piani di vita. In breve, ci sono condizioni di base che riguardano tutti e che, al contempo, vanno prodotte/assicurate in comune, gli uni insieme agli altri, come riflesso della comune appartenenza.

Come affermava Tawney in un libro sempre utile da leggere, The strategy of equality, una finalità centrale del welfare, direi la finalità centrale, è quella di “rendere accessibile a tutti, a prescindere dal reddito, l’occupazione, la posizione sociale, le condizioni della civilizzazione, che in assenza di queste misure, sarebbero godute soltanto dai più ricchi” (traduzione e enfasi mie). In questa prospettiva, “la cosa insopportabile non è che un uomo possa guadagnare più di un altro, perché questi dettagli contabili possono essere dimenticati o ignorati lì dove uno stesso ambiente, un’educazione comune e delle forme di vita condivise hanno creato un’atmosfera di rispetto e di considerazione. La cosa insopportabile è che certe classi possano essere escluse dai vantaggi della civiltà di cui altri godono e che il senso di appartenenza a una stessa umanità, che è la questione decisiva, sia messa in discussione a causa di situazioni economiche diverse”.

In breve, il welfare non è solo erogazione di prestazioni private a chi è rimasto indietro. È creazione anche di spazi comuni/condivisi dove i diversi si incontrano nella produzione e nel godimento di un insieme fondamentale di beni cui tutti possono accedere. In questa prospettiva, certamente, l’universalismo deve piegarsi al riconoscimento delle differenze, anche dando di più a chi ha maggior bisogno (nella prospettiva, ad esempio, del cosiddetto targeting within universalism). Si tratta, tuttavia, di un riconoscimento dentro uno spazio di tutti, riconoscimento tanto più importante in un contesto multi-culturale: i migranti, invece, non sono citati nel documento, a meno che non siano donne o coincidano con le minoranze.

Un buon esempio, certamente non l’unico, per mettere in evidenza le distinzioni è offerto dalle politiche di sostegno all’istruzione dei minori svantaggiati. Da un lato, abbiamo la garanzia-bambino, la dote educativa e anche i piani individualizzati di sostegno rivolti ai minori poveri, contemplati nel “documento Colao”. Dall’altro abbiamo, la concezione di scuola così ben richiamata da Lorenzoni su Internazionale (espressa, fra gli altri, da Alfieri, assessore alla gioventù e allo sport di Torino dal 1976 al 1985, secondo cui la via migliore “per rompere i ghetti urbani non può che essere quella di creare in periferia servizi migliori di quelli che si trovano nelle zone considerate privilegiate, fino a indurre i ceti medio-alti a complicarsi la vita pur di mettere a disposizione dei loro figli certi modi di stare insieme e di capire il mondo che si sperimentano in periferia”; da Lodi, da Melli e Codignola, dove la città stessa diventa occasione di esperienza educativa.

L’universalismo non è che l’altra faccia della nostra comune uguaglianza morale. Ha dunque una giustificazione ben diversa da quella richiamata nel documento a sostegno del quid di universalismo che esso difende: l’essere fondato sulle “raccomandazioni degli esperti del settore e delle organizzazioni internazionali”.

Il secondo elemento che a me pare discutibile concerne quella che, seppure in termini un po’ imprecisi, definirei l’accettazione, quanto meno implicita, di una visione dei mercati quale luogo naturale. Fondo questa obiezione su quanto si afferma nel documento a proposito della necessità di resilienza di fronte a eventi traumatici. A tal fine, il documento propone anche un pacchetto di visite psicologiche e una cabina di regia sul benessere. Ora, pur a prescindere da alcuni timori nei confronti di una simile cabina statale di regia quando il benessere abbia a che fare con le condizioni psicologiche, piuttosto che con lo star bene a stampo oggettivo (come nella prospettiva di Sen), perché richiedere di essere resilienti in un mondo ingiusto? La resilienza è certamente importante, ma la via maestra per raggiungerla consiste in interventi ex ante che permettano di ridurre i rischi di eventi traumatici. Certo, non tutto è prevenibile, ma una diversa distribuzione del potere, grazie, fra l’altro, a un rafforzamento dei diritti dei lavoratori, meno concentrazione dei mercati, più regolazione della finanza e più democrazia economica, può fare molto. Questo resta, tuttavia, sostanzialmente trascurato nel documento, con effetti negativi in termini di giustizia (che rimane alle porte dei mercati e delle imprese) e di sostenibilità del welfare, cui verrebbero addossati costi sociali invece evitabili. Ricordo come le esperienze di maggiore successo di welfare siano quelle fondate sulla complementarità virtuosa, con un’economia che limita le disuguaglianze.

L’accettazione di una visione del mercato quale luogo naturale traspare altresì dall’adozione di una logica stringente di do ut des nel disegno del reddito di cittadinanza, rispetto al quale si suggerisce “il superamento di un set minimo di percorsi formativi quale condizione per beneficiare del reddito di cittadinanza”. Certo, se si è in grado di lavorare, occorre lavorare. Il che vale per la richiesta di una formazione che sia in grado di portarci a lavorare. Ma se queste condizioni sono assenti, anche per (ir)responsabilità collettive nel creare domanda di lavoro e garantire uguaglianza di opportunità, perché chiedere di dimostrare continuamente che ci si sta dando da fare? Introdurre questa logica anche nell’assistenza, non è guardare all’altro come inevitabilmente deviante, diversamente da noi, nella violazione della comune uguaglianza morale?

Infine, un accenno all’ultimo punto debole che riguarda la sostanziale assenza della dimensione della governance. In molti casi, i nostri servizi pubblici esibiscono oggi una qualità insoddisfacente: ritardi, disattenzione agli utenti, opacità a livello locale, scarichi di responsabilità. In questo senso, dobbiamo fronteggiare carenze non indifferenti dell’intervento pubblico. Ma, diversamente da quanto traspare dal documento, le interazioni fra pubblico e privato, dalle esternalizzazioni alle varie forme di partnership, sono anch’esse dense di problemi, in primis, di scaricamento di costi sui soggetti più deboli e di rischi di opportunismo. In coerenza con la dimensione universale e di bene comune del welfare, serve, al contrario, promuovere nuovi modelli di partecipazione democratica, in grado di assicurare attenzione ai territori e alle organizzazioni di cittadinanza attiva che vi operano. La giustizia sociale non concerne solo gli obiettivi. Riguarda anche le modalità di realizzazione, i processi. Ma di questo ben poco si parla nel documento (al contrario, rispetto al terzo settore è privilegiato, da un lato, il tema delle agevolazioni fiscali nonché delle nuove forme di finanza e dall’altro, quello della supplenza nei confronti dei deboli).

Questi limiti non solo rappresentano un vulnus sul piano della giustizia sociale, ma rischiano di indebolire la fattibilità stessa delle misure proposte. È difficile aiutare chi sta peggio se non si intacca la disuguaglianza, realizzando un welfare universale che garantisca a tutti l’accesso a un uguale insieme di beni comuni, abbandonando con decisione la visione del mercato quale luogo naturale e progettando modalità democratiche di governance.

 

Elena Granaglia

 

 

 

fonte: eticaeconomia

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