Imparare dalla pandemia. di Gavino Maciocco

Due libri usciti a settembre – di Marco Geddes e Francesca Nava – ci aiutano a capire, a conoscere com’è nata e come si è sviluppata la pandemia, a sapere cos’è andato storto. Per non ripetere gli stessi errori.

“Sapete cosa temo? Che da questa esperienza non si sia in grado di apprendere, cioè di acquisire e mettere in atto provvedimenti, organizzazioni, comportamenti adeguati affinché il ripresentarsi di questa epidemia o di fenomeni simili sia prevenuto e affrontato adeguatamente”.

Quando – lo scorso luglio – Marco Geddes consegnò all’editore il manoscritto del libro “La sanità al tempo del coronavirus”[1] l’epidemia raggiungeva il livello più basso di diffusione (“dati del 19 luglio: 219 casi e 3 morti. Mai così pochi decessi, nessuno in Lombardia”). Ebbene, i timori che il paese, e il nostro sistema sanitario, si facessero trovare impreparati di fronte a una seconda ondata erano purtroppo molto ben fondati: i dati di ieri 20 ottobre 2020, 10.874 casi e 89 morti.

Due libri usciti a settembre – quello di Marco Geddes e l’altro “Il Focolaio”[2] di Francesca Nava – ci aiutano a capire, a conoscere com’è nata e come si è sviluppata la pandemia, a sapere cos’è andato storto. Dovrebbero aiutarci a imparare dall’esperienza che stiamo vivendo, perché da “questa epidemia e da altri fenomeni simili” non ci libereremo così facilmente.

I due libri hanno tagli molti diversi, per questo si possono considerare perfettamente complementari.

Il lavoro di Geddes affronta il tema della pandemia da coronavirus a 360 gradi, come annuncia il sottotitolo: “Ieri, oggi, domani”. Ecco, mentre tutte le nostre attenzioni e preoccupazioni si concentrano sull’oggi, o meglio sulla mezz’ora che va dalle 17,30 alle 18,00 quando vengono sfornati di dati di quello che è successo nelle 24 ore precedenti (i numeri dei nuovi casi, dei tamponi effettuati, dei ricoverati in terapia intensiva e infine dei morti), dovremmo fermarci a riflettere, a imparare a conoscere le cause che ci hanno portato a questo punto (e a non dimenticarcene).

“Diciamolo chiaramente”, scrive Geddes. “Siamo entrati in questo millennio con eventi catastrofici, quali l’attacco alle Torre Gemelle nel 2001, la crisi finanziaria del 2008 e la crescente crisi climatica e ambientale di questo decennio. Tuttavia la priorità, spesso enunciata, di uno sviluppo sostenibile non viene fatta propria dalle scelte politiche internazionali, ma lasciata a movimenti d’opinione – tipo quello di Greta Thumberg – utili e meritevoli, ma scarsamente efficaci nel lungo periodo. Le priorità sono state altre e altri i pericoli avvertiti: non la Sars o i molteplici virus della “natural catena” che si è dipanata in questi decenni davanti ai nostri occhi; non il dissesto ambientale, non la distruzione delle aree boschive, non i mutamenti climatici, fattori tutti fra loro concatenati.”

Geddes ha colto in pieno il punto. Le priorità sono state altre: le guerre, la produzione incessante di armi, le politiche muscolari di potenza. Non dimentichiamo l’invasione USA/UK dell’Iraq nel 2003, innescata con prove false, e l’intervento militare internazionale in Libia del 2011. La guerra in Iraq – con un carico di morte stimato tra i 600 mila e il milione di morti – ha provocato l’intera destabilizzazione dell’area, la nascita dell’Isis, la guerra civile in Siria – 380 mila morti e l’esodo e la migrazione di 4 milioni di persone -, l’intervento della Turchia contro la comunità curda.

Le priorità sono state altre, non certo la salute della popolazione. Dimenticarsi “salute per tutti”: la salute al tempo della globalizzazione – “più mercato e meno stato” – deve diventare oggetto di business e di profitto per provider privati, assicurazioni e case farmaceutiche. Sono riusciti anche a privatizzare l’OMS, dagli anni 80 declassata e definanziata, umiliata, costretta a accettare – sotto lo sguardo incurante della comunità internazionale – che il primo finanziatore dell’agenzia per la sanità delle Nazioni Unite diventasse la Fondazione di Bill e Melinda Gates. Non c’è quindi da sorprendersi che quella stessa comunità internazionale – priva di una guida autorevole  – si sia trovata impreparata (con l’eccezione di alcuni paesi asiatici) ad affrontare una pandemia, che in realtà è diventata qualcosa di ben più grave e impressionante: una “sindemia, ovvero un’epidemia da coronavirus combinata con un’altra epidemia (a lungo ignorata), quella da malattie croniche, che interagiscono entrambe su un substrato sociale di povertà e producono una distruttiva dilatazione delle diseguaglianze.

“Tutto sommato eravamo più preparati a marzo” dice il primo personaggio della vignetta di Ellekappa del 17 ottobre. “Perché all’epoca il virus ci aveva colto di sorpresa”, aggiunge il secondo.

Il nostro sistema sanitario è arrivato stremato all’appuntamento con la pandemia. Debilitato da anni di continui tagli e di blocco degli organici. Le evidenze al riguardo – scrive Geddes – sono inconfutabili: “Nell’ultimo decennio, a partire dalla crisi finanziaria del 2008, la spesa sanitaria pubblica è calata in termini reali (prezzi anno 2000) da 95 miliardi (2008) a circa 82 miliardi (2018); conseguentemente, per offrire un confronto più ampio, rapportando a 100 la media UE (15), il nostro Paese è passato da 91 a 73”. Drastica la riduzione dei ricoveri: meno 30% dal 2001 al 2016. Di fronte a una tendenza del genere uno si sarebbe atteso un potenziamento dei servizi territoriali per rispondere ai crescenti bisogni di una popolazione sempre più anziana.  “Questo non è avvenuto e si è avuta una riduzione dei medici e dei pediatri di base, un ulteriore impoverimento delle presenze infermieristiche, una riduzione dell’assistenza domiciliare, un allentamento dei rapporti tra servizi sanitari e sociali e anche questi ultimi hanno risentito della riduzione dei finanziamenti”.

Se nel resto d’Italia l’indebolimento strutturale dei servizi territoriali è avvenuto attraverso una progressiva riduzione delle risorse, a cui si è accompagnata quasi ovunque la totale mancanza di processi di innovazione, in Lombardia lo smantellamento dei Distretti e dei Dipartimenti di prevenzione è stato il frutto di una precisa, consapevole scelta politica, portata avanti con determinazione e successo dai governi Formigoni e Maroni, come si legge nel libro di Francesca Nava: “La sanità pubblica e la medicina territoriale sono state da molti anni trascurate e depotenziate nella nostra Regione”.

Dicevamo che il libro-inchiesta di Francesca Nava è complementare a quello di Marco Geddes. Se il libro di Geddes ci fornisce una storia di largo respiro, quello di Nava ci toglie il respiro raccontandoci con straripante passione e insieme con chirurgica precisione il momento topico dell’inizio della pandemia in Italia: “Vorrei che queste pagine le leggesse chi non conosce Bergamo, la mia città, e ancora oggi non si rende conto di quello che è accaduto in Val Seriana. Questa storia ci riguarda tutti, perché è a partire da questo focolaio che la vita degli italiani è stata stravolta. Non averlo saputo gestire e controllare ha messo a nudo tutte le fragilità di un sistema che si credeva infallibile ed eccellente. Capire e analizzare, risalire alle responsabilità, mettere in fila le negligenze, deve essere il punto di partenza per non commettere mai più gli stessi errori

Lombardia, Bergamo, Val Seriana. Il racconto di Francesca Nava si snoda qui. Se la Lombardia fosse uno Stato autonomo vanterebbe il primato mondiale di mortalità da Covid-19: 1.663 morti per milione di abitanti, con un distacco impressionante rispetto al secondo in classifica, il Belgio con 880 morti per milione. E in Lombardia il primato di mortalità spetta alla provincia di Bergamo che registra a marzo un balzo del 464% dei decessi oltre i livelli “normali”. 5.400 morti totali a marzo 2020 contro una media di 900 degli ultimi anni. Sei volte tanto. Più si indaga nei territori, più il divario aumenta, con punte di crescita fino al + 2000% come nel caso di alcuni paesi della Valle Brembana come San Pellegrino Terme e San Giovanni Bianco.

Questa sconvolgente concentrazione di decessi non è stata il frutto di casualità o di una particolare aggressività del virus. Alla base della catastrofe c’è una clamorosa serie di errori tecnici e di scelte politiche irresponsabili, che si condensano in due precisi momenti: la mancata chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo e la mancata istituzione della zona rossa tra Alzano Lombardo e Nembro.

Dopo la scoperta il 21 febbraio del primo caso italiano di Covid-19 a Codogno (ospedale chiuso per più di tre mesi, zona rossa per quel comune e altri comuni circostanti), a qualche decina di chilometri da Bergamo, furono registrati altri due casi di Covid-19 nell’ospedale di Alzano Lombardo. Era il 23 febbraio e il Direttore sanitario della struttura, il dr. Giuseppe Marzulli ne decise l’immediata chiusura.  Una chiusura che durerà però solo tre ore. “L’ordine di riaprire tutto viene dato dal direttore generale dell’assessorato regionale al Welfare, Luigi Cajazzo, un ex-dirigente  della squadra mobile di Lecco, braccio destro di Gallera. Un ex-poliziotto ordina da Milano di riaprire un ospedale infetto”. “Dopo aver ordinato la chiusura del pronto soccorso, sospeso l’arrivo delle ambulanze, recintato ogni via di accesso, tenuto in ostaggio pazienti, parenti e operatori sanitari per diverse ore, che cosa accade? Vengono mandati tutti a casa. Una vera follia epidemiologica. Soprattutto perché la maggior parte delle persone transitate nell’ospedale e nel pronto soccorso quella domenica, una volta uscite – senza essere né diagnosticate, né identificate – ritornano alle loro famiglie. Il giorno dopo vanno in ufficio, in fabbrica, a fare la spesa, al parco, al bar, a bere l’aperitivo, si muovono liberamente per il comune, la provincia e la regione. Altre vanno a sciare, ad esempio a Lizzola o a Valbondione (località sciistica in provincia di Bergamo) dove guarda caso si registrano impennate di contagi da Covid-19 a partire dai giorni successivi”.

Dal focolaio di Alzano l’incendio divampa nelle aree circostanti. I dati dei contagi e dei morti provenienti da quella zona della bergamasca preoccupano enormemente il Comitato Tecnico Scientifico e l’Istituto Superiore di Sanità che con due note consecutive (del 3 e del 5 marzo) raccomandano l’adozione di una zona rossa per Alzano Lombardo e Nembro. Il 5 marzo tutto sembra pronto per l’operazione di blocco del territorio: i militari del Terzo Battaglione dei Carabinieri arrivati da Lombardia, Veneto, Piemonte e Toscana attendono ordini. La disposizione delle forze sul campo è fissata per le 19. Ma alle 21.30 viene inspiegabilmente ordinato ai militari di rientrare. Quello della mancata creazione della zona rossa nella Val Seriana è uno degli episodi più gravi, drammatici e oscuri della storia della pandemia italiana, con conseguenze gravissime per la salute della popolazione.

La giornalista Francesca Nava scava in profondità su questa vicenda, da cui alla fine emergono una certezza e tante debolezze e ambiguità.  Chiarissima fin dall’inizio è la posizione degli industriali lombardi e bergamaschi, fieramente, ostinatamente contrari a ogni forma di chiusura. Figura centrale al riguardo è Marco Bonometti, capo degli industriali lombardi (uno che fornisce la Jaguar) – “Se l’Italia si fosse fermata e altri paesi gli avessero fottuto le commesse, lui avrebbe avuto un danno irreparabile” -.  Le debolezze e le ambiguità sono quelle della politica, del governo lombardo e di quello centrale, di Fontana e di Conte, con l’insopportabile scaricabarile su chi aveva il compito di creare la zona rossa – toccava te, no toccava a te -.

“L’idea che si consolida dentro di me – scrive Nava – è chiara: entrambi sanno che quella mancata zona rossa è frutto di una condivisione di vedute e di scelte. Che facevano comodo a tutti. Tranne a chi è morto”.

Il 28 aprile scorso si è costituita a Bergamo l’associazione “Noi denunceremo. Verità e giustizia per le vittime di Covid-19” a cui hanno aderito 60 mila persone (non solo di Bergamo). “Non cercano risarcimenti dallo Stato, non vogliono vendetta, vogliono ‘solo’ ristabilire la verità dei fatti, Che tutti i lombardi e gli italiani sappiano che cosa è accaduto davvero nella loro città, a Bergamo, nella Val Seriana, nell’epicentro di questo contagio isolato tardi e male”.

Bibliografia

  1. Marco Geddes da Filicaia. La sanità al tempo del coronavirus. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore,  2020.
  2. Francesca Nava. Il Focolaio. Bari: Editori Laterza, 2020.  

fonte: saluteinternazionale.info

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