Giovani e alcolismo. Il vecchio mito del diavolo in corpo. di Grazia Zuffa

Teneri alcolisti”: così si intitola il lungo report sui consumi di alcol nella generazione del dopo millennio, uscito a fine dicembre scorso sul Longform di Repubblica. Il titolo non è che un assaggio del menu: si tratta di giovani “divorati ogni notte da un consumo di alcol in età sempre più precoce”; sedotti da prodotti alcolici dedicati a basso prezzo; che non ricercano il piacere ma (irrazionalmente e irresponsabilmente, è implicito) la perdita di controllo. Lo sballo per lo sballo, insomma. Il bere non è solo sinonimo di alcolismo e di danni cerebrali irreversibili (bastano due mesi di ubriacature a “spegnere le aree della memoria”, si legge); è anche la porta d’accesso alle droghe illegali, al “poliabuso di sostanze stupefacenti di cui l’alcol è la gateway drug”.

Anche se alcuni esperti citati dicono cose diverse (si vedano le riflessioni sulla dipendenza di Federico Tonioni), tuttavia l’approccio terroristico del servizio è inequivocabile, in un intreccio di luoghi comuni sui giovani e di “miti” storici sulle droghe, legali e illegali.  L’immaginario sulle giovani generazioni in genere oscilla fra il diavolo e l’acqua santa, l’uno elidente l’altra. E infatti il pezzo si concentra sulle fiamme dell’inferno alcolico (che ai più vecchi ricorda tanto la “gioventù bruciata” – da sesso, alcol e quant’altro – dei lontani anni cinquanta): dimenticando gli angeli dei Fridays for future, impegnati di giorno a salvare il pianeta, ma che presumibilmente sono gli stessi “divorati” di notte dall’alcolismo precoce.

Quanto al mito del “flagello alcol”, antecedente storico del “flagello droga”, basti ricordare il Movimento della Temperanza, che in America lottò vittorioso per la proibizione dell’alcol: con la motivazione della escalation inevitabile, da una birra alle tante birre e al whiskey, dall’uso moderato alla dipendenza. Stessa storia per tutte le droghe: dall’alcol alla cannabis, dalla cannabis all’eroina. Agli inizi del Novecento, gli attivisti della Temperanza insegnavano nelle scuole ai bambini americani a recitare filastrocche edificanti, per convincere i padri all’astinenza, pena l’inevitabile destino di ubriaconi. Oggi, al ragazzo del Flaminio che dice di bere “tre birre e poi stop… altrimenti non riesco a guidare la moto”, si contrappone la profezia degli Alcolisti Anonimi: “E’ così che si inizia. Anzi è così che si scivola nella dipendenza”. Siamo al rilancio del famoso slogan guerresco “A drugfree world, we can do it”?

Ciò che ostinatamente rimane fuori scena è il significato sociale del bere, la comprensione delle differenti culture, delle scelte che gli individui, giovani e meno giovani, operano, i criteri di razionalità che li ispirano. La questione “alcol e giovani”, come allarme per l’aumento dei consumi e i dilaganti “eccessi” nel bere, risale ad almeno quaranta anni fa. In una revisione delle ricerche qualitative lungo un ventennio (condotta da Franca Beccaria nel 2010), usciva smentita la immagine dei giovani italiani del tutto omologati al modello dello extreme drinking, “privi di valori e molto più attratti da comportamenti rischiosi rispetto alle generazioni precedenti”: invece, i ragazzi del duemila mostravano una nuova consapevolezza degli effetti ricercati nell’alcol, e anche del “posto” (temporale, sociale, psicologico) da riservare all’uso occasionale più intenso. Una ricerca toscana di pochi anni fa approfondisce i cosiddetti “policonsumi”, quali esito perlopiù “razionale” di abbinamenti utili a modulare gli effetti delle varie sostanze, mitigando quelli più rischiosi e spiacevoli (come l’uso rilassante della cannabis quando si è bevuto troppo).  La stessa razionalità che durante il lockdown ha spinto molti consumatori a diminuire l’uso di alcol, venendo meno i contesti di socialità e non ritrovando “senso” nel bere solitario (come da una ricerca sui consumi durante la chiusura pandemica, in via di pubblicazione).

fonte: Fuoriluogo rubrica su il Manifesto

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