Salute in carcere. di Francesca Grosso

Alla fine del 2019 il numero di persone dietro le sbarre di un carcere è aumentato del 25% rispetto all’inizio del nuovo millennio, per un totale di circa 11 milioni di detenuti nel mondo. In Europa, il tasso di notifica di tubercolosi nelle prigioni è 17 volte più alto rispetto alla popolazione generale.

“Non dimentichiamoci dei detenuti”, così esordisce l’editoriale della rivista Lancet Global Health pubblicato il 1° Febbraio 2022, ricordando l’appello del Premio Nobel Desmond Mpilo Tutu (1). Secondo un report redatto dalle Nazioni Unite, alla fine del 2019 il numero di persone dietro le sbarre di un carcere è aumentato del 25% dall’inizio del nuovo millennio, per un totale di circa 11 milioni di detenuti nel mondo (2). Il tasso di detenuti ogni 100.000 persone varia a seconda del Paese: l’Italia conta 91 prigionieri ogni 100.000 abitanti mentre gli U.S.A., il Paese con il tasso più alto nel mondo, ne conta 629 (3).

Health Affairs (4) analizza a fondo il fenomeno. Un aumento del 500% delle incarcerazioni negli ultimi 40 anni in America, pare non sia dovuto semplicemente a un aumento della criminalità, ma anche alla “War on Drugs”, alle tendenze discriminatorie verso le popolazioni svantaggiate e nei confronti di chi è affetto da malattia mentale.  Se guardiamo ai detenuti attraverso la lente della sanità pubblica, lo stato di salute di questa popolazione non è affatto equiparabile a quello della popolazione generale. Si stima che tra tutti i carcerati nel mondo il 3.8% sia affetto da HIV, il 15.1% da epatite C, il 4.8% da epatite B e il 2.8% da tubercolosi attiva. Fra le altre patologie particolarmente frequenti in questa popolazione rinveniamo la scabbia e altre infezioni sessualmente trasmissibili (gonorrea, clamidia o sifilide) (5). Sono proprio le malattie infettive, da sempre paradigma di diseguaglianza in salute pubblica, che rispecchiano in buona parte le condizioni abitative e di vita come determinanti fondamentali. Secondo un rapporto dell’OMS (6) ad esempio, i prigionieri sono più esposti alla tubercolosi a causa di fattori esogeni che causano sovrainfezione e progressione della malattia come: scarsa ventilazione, affollamento delle celle, malnutrizione, trasferimenti frequenti di prigionieri, comportamenti sessuali a rischio e accesso limitato alle cure. In Europa, il tasso di notifica di tubercolosi nelle prigioni è 17 volte più alto rispetto alla popolazione generale. In uno studio condotto da Lancet (7), emerge come più della metà degli individui infetti da HCV abbia tre fattori di rischio compresenti quali: carcerazione, assenza di fissa dimora e uso di droghe iniettabili.

Circa il 40% dei detenuti soffre di almeno una malattia mentale. I detenuti hanno un rischio di suicidarsi 7 volte più alto di quello della popolazione in libertà, e tale rischio aumenta fino a raggiungere un valore 18 volte più alto nei giovani detenuti (8). Inoltre, sono comuni le dipendenze da oppioidi e farmaci antidolorifici. Anche in questo caso, le condizioni di reclusione hanno un notevole impatto sulla salute mentale come l’assenza di privacy, l’assenza di attività importanti  per la salute e lo scarso accesso ai servizi di salute mentale. Le condizioni di vita nelle prigioni determinano ripercussioni anche sulle malattie croniche come diabete, malattie cardiovascolari/respiratorie, e il cancro: fattori esacerbanti riguardano la dieta non bilanciata, l’eccesso di sodio, l’abitudine al fumo e l’inattività fisica (9).

Essere reclusi non è l’unica condizione responsabile del peggioramento esponenziale del proprio stato di salute. Le comunità dalle quali provengono i prigionieri sono tipicamente marginalizzate, con alti tassi di povertà, disoccupazione e bassi livelli di educazione. Sono quindi comunità che hanno già scarso accesso ai servizi di cura e con un alto rischio di sviluppo di malattie, pertanto un detenuto presenta già uno stato di salute peggiore rispetto alla popolazione generale, prima ancora di entrare per la prima volta in un istituto penitenziario. L’impatto del rientro dell’ex detenuto in comunità non è da sottovalutare. Problematiche di salute non affrontate in carcere, quali la malattia mentale o l’uso di sostanze stupefacenti, potrebbero peggiorare una volta nuovamente a casa, senza considerare un tasso di violenza domestica particolarmente elevato nelle famiglie dei detenuti (10). Lo scambio di influenza è però reciproco: la riammissione in società di un ex detenuto è spesso corredata da grande stigma. Negli U.S.A il tasso di disoccupazione degli ex prigionieri è circa 5.5 volte più alto rispetto alla popolazione generale, e molti ex detenuti hanno riportato di avere incontrato barriere quando accedevano ai servizi sanitari.

La maggior parte dei dati che abbiamo sul carico delle malattie nelle carceri proviene da paesi sviluppati, mentre i LMICs (Lower Middle Income Countries) sono sottorappresentati, probabilmente a causa di resistenze alla ricerca. In un commento all’editoriale (11) si illustra che oltre alla burocrazia, fanno da barriera alla ricerca in questo ambito gli alti tassi di detenzione precauzionale, la scarsa attitudine a effettuare test di screening e di diagnosi e anche un atteggiamento ostruttivo del management carcerario. Gli autori precisano che nonostante il burden di malattia sia maggiore per i paesi LMICs, la politica non investe nella salute delle carceri e non investe in cultura per cambiare la prospettiva delle società sulla detenzione, come strumento riabilitativo invece che punitivo.

Risulta evidente l’importanza di adottare delle strategie per prevenire, identificare e trattare le malattie dei carcerati. Come lungamente proposto dall’OMS, l’identificazione dei determinanti di salute e delle popolazioni a rischio è la chiave per una società che produca salute per tutti. Nel 2014 l’OMS Europa ha pubblicato un rapporto su “Salute e prigione” (12), con una particolare attenzione alle cure primarie: lo screening per le malattie mentali ed infettive è un punto chiave. È fondamentale agire sul setting  ed implementare politiche di prevenzione primaria in generale e altresì investimenti sulla formazione degli operatori sanitari in materia di promozione della salute. Negli U.S.A la “Transitions Clinics Network” fa parte di una serie di iniziative promettenti che “agganciano” l’ex detenuto ai sistemi sanitari per migliorare la propria salute fisica e mentale nel fragile periodo di rientro in comunità. Una iniziativa di successo considerato che si è dimostrato come i pazienti seguiti dalla Transitions Clinic Network avessero effettuato minori accessi in Pronto Soccorso rispetto a chi era semplicemente in carico alle cure primarie. La garanzia di diritto alla salute nelle carceri è una tematica che non riguarda soltanto i detenuti, ma anche il personale che lavora negli istituti penitenziari e ancora, l’intera società che riaccoglie in comunità gli ex carcerati.

Investire in questo ambito significa occuparsi di una popolazione vulnerabile in partenza. Agire sulle comunità di provenienza, fornire servizi sanitari al detenuto e occuparsi dei programmi di rientro sono gli obiettivi del futuro per restituire dignità ed umanità a queste persone.

L’Autrice: Francesca Grosso, medico in formazione specialistica in Igiene e Medicina Preventiva, Università degli Studi di Milano Statale.

 

Bibliografia

(1) “Withholding liberty, not the right to health” – The Lancet Global Health, Volume 10, Issue 2, e154, February 2022

(2) “Report curated by Data Development and Dissemination Section and the Crime Research Section of the Research and Trend Analysis Branch”, United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), https://www.unodc.org/documents/data-and-analysis/statistics/DataMatters1_prison.pdf, 2021

(3) Helen Fair, Roy Walmsley, “World Prison Population List” – 13th edition https://www.prisonstudies.org/sites/default/files/resources/downloads/world_prison_population_list_13th_edition.pdf, 2021

(4) Ebony N. Russ et al., “Prison and Jail Reentry and Health”, Health Policy Brief, Health Affairs n° 54., October 2021

(5) Dolan, Kate et al. “Global burden of HIV, viral hepatitis, and tuberculosis in prisoners and detainees” – The Lancet, Volume 388, Issue 10049, 1089 – 1102

https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(16)30466-4/fulltext, 2016

(6) WHO, “Focus Area on Tuberculosis” https://www.euro.who.int/en/health-topics/health-determinants/prisons-and-health/focus-areas/tuberculosis, 2007

(7) Aisyah, Dewi Nur et al.
 “Hepatitis C virus infection in vulnerable populations: a seroprevalence study of homeless, people who inject drugs and prisoners in London, UK”
- The Lancet, Volume 390, S18, November 2017

(8) WHO “Fact Sheet on Prison and Health”  https://www.euro.who.int/__data/assets/pdf_file/0020/250283/Fact-Sheet-Prison-and-Health-Eng.pdf

(9) Plugge E. et al “Prisons and Health, 10th Chapter: Noncommunicable diseases and prisoners” –https://www.euro.who.int/__data/assets/pdf_file/0007/249199/Prisons-and-Health,-10-Noncommunicable-diseases-and-prisoners.pdf

(10) Duncan G. et al “Prisons and Health, 11th Chapter:  Mental Health in Prison” https://www.euro.who.int/__data/assets/pdf_file/0017/249200/Prisons-and-Health,-11-Mental-health-in-prison.pdf

(11) Gureje, Oye et al. “Severe mental disorders among prisoners in low-income and middle-income countries: reaching the difficult to reach”
 The Lancet Global Health, Volume 7, Issue 4, e392 – e393

https://www.thelancet.com/journals/langlo/article/PIIS2214-109X(19)30057-9/fulltext

(12) https://www.euro.who.int/__data/assets/pdf_file/0005/249188/Prisons-and-Health.pdf

fonte: saluteinternazionale.info

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