Leonardo Fiorentini commenta la sentenza del TAR sul decreto ministeriale che ha inserito le preparazioni orali a base di CBD nelle tabelle degli stupefacenti per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto
Con la sentenza n. 07509/2025 depositata il 16 aprile scorso, il TAR del Lazio ha respinto il ricorso presentato da associazioni e imprese della filiera della canapa italiana contro il decreto del Ministero della Salute che ha inserito le composizioni orali a base di cannabidiolo (CBD) nella sezione B della tabella dei medicinali del DPR 309/1990. Una decisione che, al di là del tecnicismo giuridico, rappresenta un passo indietro sul piano della razionalità normativa e del buon senso scientifico.
Il cuore della motivazione risiede nell’invocazione del principio di precauzione, che giustificherebbe l’assoggettamento del CBD a una disciplina tipica delle sostanze psicoattive, nonostante l’assenza di una reale pericolosità. I giudici amministrativi si sono affidati ai pareri dell’Istituto Superiore di Sanità e del Consiglio Superiore di Sanità che, pur ammettendo l’assenza di evidenze conclusive sugli effetti psicotropi del CBD, segnalano possibili rischi legati a prodotti non standardizzati e a contaminazioni accidentali con il THC (Tetraidrocannabinolo).
Ma è proprio qui che si manifesta tutta l’inadeguatezza della risposta pubblica: di fronte a possibili rischi legati non al CBD in sé, ma alla mancanza di controllo e trasparenza sul mercato, il TAR avalla una logica proibizionista, che scarica su imprese e consumatori l’incapacità dello Stato di regolare il settore. Fornisce così un assist al Governo, impegnato a vietare le infiorescenze di canapa industriale col decreto sicurezza.
Invece di lavorare a norme chiare, con standard di qualità, tracciabilità e limiti di contaminanti, in Italia si preferisce proibire. Certo, non è compito dei giudici amministrativi produrre norme, ma la loro decisione ci porta nell’assurdo di assoggettare alle norme sugli stupefacenti preparati non psicotropi ottenuti da piante esplicitamente escluse dalle convenzioni e dal Testo Unico sulle droghe.
Un non senso giuridico e scientifico che relega il CBD, almeno nelle sue preparazioni full sprectrum, ai soli canali farmaceutici, con prescrizione non ripetibile. Si tagliano fuori così centinaia di piccoli produttori e si rende più difficile la vita ai consumatori non medicalizzati. Un approccio miope – per il quale non va mai dimenticata la responsabilità dell’ex ministro Speranza, che per primo presentò il decreto – che confonde l’assenza di regolazione con l’intrinseca pericolosità della sostanza e che – fra i mille paradossi – non tocca le preparazioni orali a base di CBD sintetizzate, che continueranno a poter essere vendute.
Il TAR, pur riconoscendo che la cannabis è una pianta complessa e che il CBD non presenta di per sé un rischio, sceglie di considerare le “composizioni orali ottenute da estratti” come sostanzialmente incontrollabili, perché “non purificabili” dal THC. Ma questa è una resa alla mistificazione, perché le tecnologie di estrazione consentono di ottenere preparati a contenuto controllato, così come la presenza di tracce di THC, fino allo 0,2% secondo l’Oms, non implica effetti psicotropi o altri particolari effetti collaterali.
Il principio di precauzione, nato per gestire l’incertezza scientifica, non dovrebbe aver campo dopo due anni di revisione della letteratura medica da parte dell’Oms. Serve solo a coprire l’ombra lunga del proibizionismo. In questo caso, il “rischio” non riguarda la sostanza, bensì il contesto di mercato in cui essa viene commercializzata. E allora perché non intervenire sul contesto, con norme e controlli?
La paura è la cifra di questo Governo. Un sipario, dietro il quale lo Stato sceglie di non regolare, ma solo di proibire. Così, come con l’art. 18 del decreto sicurezza che equipara la cannabis light a quella psicoattiva, invece di proteggere la salute pubblica, si favorisce il ritorno al mercato nero e alla clandestinità. Insomma, l’erba è comunque maledetta e da vietare.