Periferie ancora al palo. di Chiara Saraceno

La riqualificazione delle periferie degradate passa per la ricostruzione del tessuto sociale. La pre-condizione è che si smetta di considerarle come ricettacolo di disagio o come deposito di proteste da cavalcare elettoralmente, salvo poi dimenticarsene.

 

 

 Una beffa dopo la vittoria alle elezioni

La “questione delle periferie”, combinata con quella dell’immigrazione, è stata al centro sia della campagna elettorale sia delle analisi dei risultati. La Lega ha fatto della evocazione della “giusta rabbia delle periferie” uno dei punti chiave della sua campagna “prima gli italiani” anti-migranti. Ove i migranti sono stati semplicisticamente, quanto efficacemente, rappresentati come scrocconi a danno dei legittimi bisogni, appunto, degli abitanti, italiani, dei quartieri periferici e allo stesso tempo come causa del degrado di questi ultimi. Lo scarso interesse per gli abitanti delle periferie e per le loro condizioni di vita a favore degli interessi degli abitanti dei quartieri più abbienti è stata viceversa una delle chiavi di lettura della sconfitta del Pd e del governo uscente, nonostante avesse stanziato – seppur tardivamente – fondi proprio per un miglioramento delle periferie: una prima tranche di 500 milioni nel 2016 e una seconda, più corposa, di un miliardo e 600 milioni nel 2017.
Ora, sei mesi dopo il voto, con il decreto Milleproroghe, i vincitori delle elezioni hanno dirottato l’importo della seconda tranche su un altro obiettivo, lo sblocco, per i comuni “virtuosi”, degli avanzi di bilancio congelati dal patto di stabilità. La liquidazione della seconda tranche è stata rimandata al 2020, nonostante i progetti già approvati e in molti casi già avviati. Quando si tratta di politiche positive, anziché di propaganda, la marginalità politica delle periferie viene così ancora una volta confermata

I meccanismi che producono disagio

L’equazione periferia uguale disagio è sbagliata. Ci sono periferie ricche (ad esempio Milano 2 o la collina torinese), abitate da persone per nulla socialmente e politicamente marginali, così come ci sono quartieri centrali poveri e talvolta anche socialmente degradati o insicuri. Non tutte le periferie popolari, inoltre, sono in stato di degrado ambientale e sociale. Occorre distinguere tra condizioni spaziali e condizioni sociali “periferiche” e identificare quelle che fanno di un quartiere spazialmente periferico un quartiere a rischio di esclusione sociale e di degrado.
E non basta progettare iniziative “riparative” se non si mettono a fuoco i meccanismi che producono, o rafforzano, le condizioni di degrado ed esclusione sociale.

Sono più d’uno: isolamento spaziale, mancanza di servizi, concentrazione di popolazioni in particolari condizioni di svantaggio. Quando si combinano, possono produrre miscele esplosive. Sono, inoltre, spesso esito di scelte effettuate dalle politiche pubbliche a partire dal modo di dislocare e costruire l’edilizia pubblica (grandi falansteri lontani dal centro e spesso, o per lungo tempo, privi di servizi essenziali). Negli anni, quartieri di edilizia popolare abitati da famiglie di lavoratori che erano arrivate, spesso anche tramite l’acquisto, alla sicurezza di una abitazione decorosa in ambienti socialmente omogenei e relativamente sicuri sono stati progressivamente devastati nella propria organizzazione informale, senso di decoro e sicurezza, dalle successive ondate di vittime dell’emergenza abitativa, dei vari casi sociali che i comuni non sapevano dove alloggiare, dalla vicinanza di campi rom, a loro volta esito di politiche dissennate. Si aggiunga la lontananza da molti servizi e la fatica dei trasporti per arrivarci. L’alto tasso di concentrazione non solo di migranti in cerca di abitazioni economiche, ma di richiedenti asilo mandati dalle prefetture, è solo l’ultima di una serie di decisioni pubbliche che hanno reso difficile la vita in molti quartieri periferici abitati dai ceti più modesti. Il progressivo indebolimento delle strutture sociali ha favorito l’insinuarsi della micro-criminalità e il suo controllo del territorio. Non si tratta solo dei quartieri totalmente controllati dalla camorra dove non entra neppure la polizia, di cui parlano ogni tanto i giornali. Riguarda in maniera più diffusa luoghi in cui anche i propri vicini sono vissuti come un potenziale pericolo e ci si sente al sicuro solo nella propria abitazione. L’arrivo dei migranti in questi quartieri, come prima la vicinanza dei campi rom, ha fatto da detonatore alla sensazione di essere considerati abitanti di una discarica sociale, le cui radici sono ben più lontane e complesse.

Ridare fiducia

Con tutti i limiti di una iniziativa una tantum e affidata a bandi, quindi non pensata in chiave sistematica e duratura, il fondo periferie aveva l’ambizione di sollecitare iniziative collaborative da parte di attori e istituzioni pubbliche e di terzo settore presenti negli specifici territori, per innescare processi di (ri-)costituzione del tessuto sociale come pre-condizione per immaginare e investire in progetti di miglioramento per sé e per il proprio ambiente. Sarebbe auspicabile che ne derivasse anche lo sviluppo di capacità di “aver voce” nei confronti dei responsabili delle politiche pubbliche, perché smettano di considerare certe periferie vuoi come ricettacolo di disagio su cui si può impunemente scaricarne altro, vuoi come deposito di proteste da cavalcare elettoralmente, salvo dimenticarsene al momento delle decisioni.

Fonte: Lavoce.info

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