Le multinazionali della malattia. di Gavino Maciocco

Nel marzo 2005 la rivista New England Journal of Medicine pubblicò un articolo dal titolo “A Potential Decline in Life Expectancy in the United States in the 21st Century”[1], che terminava con questa previsione: «Dalla nostra analisi sugli effetti dell’obesità sulla longevità, si conclude che la crescita costante della speranza di vita verificatasi negli ultimi due secoli può andare rapidamente a finire». A distanza di pochi anni questa fosca ipotesi si è avverata: per la prima volta nella storia degli ultimi due secoli negli Stati Uniti la speranza di vita alla nascita mostra uno stop nell’incremento o addirittura una regressione, a causa dell’obesità e delle sue conseguenze sulla salute (Figura 1).

Sempre nel 2005, in occasione di una sessione dell’Assemblea delle Nazioni Unite, dedicata alle “non-communicable diseases”, il Direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Lee Jong-wook, affermava: “In tutto il mondo troppe persone soffrono o muoiono a causa di malattie croniche come cardiopatie, ictus, cancro, malattie respiratorie croniche e diabete. E non si tratta più di un fenomeno che riguarda solo i paesi ricchi. Attualmente, quattro decessi su cinque per malattie croniche si verificano nei paesi a reddito basso o medio-basso. Queste persone tendono ad ammalarsi in giovane età e, dopo anni di sofferenze e complicazioni prevenibili, finiscono per morire molto prima di chi vive nei paesi ricchi. Dei 58 milioni di morti del 2005, circa 35 milioni sono attribuibili a malattie croniche, che oggi rappresentano la principale causa di morte fra gli adulti di quasi tutti i paesi. Si prevede che nei prossimi dieci anni le vittime aumenteranno ancora del 17%. Nello stesso tempo, crescono a livello mondiale sovrappeso, obesità infantile e incidenza del diabete di tipo 2. Una situazione preoccupante non solo per la salute pubblica, ma anche dal punto di vista sociale ed economico.”[2]

Qualche anno più tardi un altro Direttore generale dell’OMS, Margaret Chan, aprendo un’iniziativa sulle malattie croniche tenutasi a Mosca nell’aprile 2011, denunciava: “Oggi molte delle minacce alla salute che contribuiscono allo sviluppo delle malattie croniche provengono da compagnie multinazionali che sono grandi, ricche e potenti, dirette da interessi commerciali e ben poco interessate alla salute della popolazione. Oggi, più della metà della popolazione mondiale vive in ambiente urbano. Le periferie delle città hanno bisogno di negozi che vendano alimenti freschi e non cibo spazzatura a basso costo e a lunga conservazione”[3].

Su questo tema Chan fu ancora più chiara ed esplicita nella relazione introduttiva all’ottava Conferenza globale sulla promozione della salute tenutasi a Helsinki nel giugno 2013: “Le disuguaglianze nella salute, tra paesi e all’interno dei paesi, non sono mai state così grandi nella storia recente. Noi viviamo in un mondo di paesi ricchi pieni di gente povera e malata. La crescita delle malattie croniche minaccia di allargare ancora di più questo gap. Gli sforzi per prevenire queste malattie vanno contro l’interesse commerciale di operatori economici molto potenti, e questa è una delle sfide più grandi da affrontare nella promozione della salute. (…) Negli anni Ottanta, quando parlavamo di collaborazione multisettoriale per la salute ciò significava lavorare insieme a settori amici, come istruzione, casa, nutrizione, acqua e igiene. Quando la sanità collaborava con il settore educativo e con quello che si occupava di acquedotti e fognature, i conflitti d’interesse erano una rarità. Oggi a convincere le persone a condurre stili di vita sani e adottare comportamenti salubri ci si scontra con forze che non sono così amiche. Anzi, non lo sono per niente. Gli sforzi per prevenire le malattie croniche vanno contro gli interessi commerciali di potenti operatori economici. Secondo me, questa è la più grande sfida che si trova di fronte la promozione della salute. E non si tratta più solo dell’industria del tabacco (Big Tobacco). La sanità pubblica deve fare i conti con l’industria del cibo (Big Food), delle bevande gassate (Big Soda) e alcoliche (Big Alcohol). Tutte queste industrie hanno paura delle regole, e si proteggono usando le stesse, ben note, tattiche. Queste includono gruppi d’opinione, lobby, promesse di autoregolamentazione, cause legali, ricerche finanziate dall’industria che hanno lo scopo di confondere le prove e tenere il pubblico nel dubbio. Le tattiche comprendono anche regali, donazioni e contributi a cause giuste per apparire rispettabili agli occhi dei politici e del pubblico. Usano argomenti che attribuiscono agli individui la responsabilità per i danni alla salute e descrivono gli interventi dei governi come un’interferenza nei confronti della libertà personale e della libera scelta. Questa è una grave minaccia contro la salute pubblica. Il potere del mercato diventa poi potere politico. (…) Lasciatemi ricordare una cosa. Non un solo paese è riuscito a invertire l’epidemia di obesità in tutte le classi di età. Questo non è il fallimento della volontà individuale. È il fallimento della volontà politica di prevalere sul grande business. Io sono preoccupata per due recenti tendenze. La prima riguarda gli accordi commerciali. I governi che introducono misure per proteggere la salute dei cittadini vengono portati davanti al giudice e sfidati nel processo. Questo è pericoloso. La seconda riguarda gli sforzi dell’industria di influenzare le politiche di sanità pubblica che colpiscono i loro prodotti. Quando l’industria è coinvolta nelle scelte politiche è certo che efficaci misure di controllo vengono minimizzate o completamente annullate. Tutto ciò è documentato e anche questo è pericoloso”[4].

“The rising burden of non-communicable diseases in sub-Saharan Africa”[5], “India’s escalating burden of non-communicable diseases”[6]. I titoli quasi identici di due articoli recentemente pubblicati su Lancet Global Health confermano la forte diffusione delle malattie croniche nei paesi a basso medio livello di reddito. In India le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte e con una mortalità in crescita del 36% dal 1990 al 2016.  Anche in Africa sub-Sahariana le malattie cardiovascolari, in particolare l’ictus, sono in continuo aumento e l’OMS prevede che la mortalità per malattie croniche supererà entro il 2030 la mortalità da malattie trasmissibili, malnutrizione, mortalità materna e perinatale.  In queste realtà ammalarsi di malattie croniche potrà avere conseguenze economiche devastanti per le famiglie a causa dei costi delle cure, soprattutto in assenza o insufficienza della copertura assicurativa. In Cina, nonostante il raggiungimento della copertura sanitaria universale, il 53% dei pazienti con ictus va incontro a spese catastrofi che a causa dei co-pagamenti previsti dall’assicurazione durante il ricovero ospedaliero e dell’insufficiente rimborso delle spese sostenute a livello di cure primarie[7]. Molti pazienti affetti da malattie croniche si trovano di fronte a una tragica scelta: curarsi e trascinare la propria famiglia nella povertà o rinunciare alle cure, con la conseguenza di un aggravamento della malattia (e anche in questo caso con ricadute economiche negative). Uno studio che ha interessato 89 paesi ha rilevato che ogni anno 150 milioni di famiglie vanno incontro a catastrofe finanziaria a causa delle spese mediche. L’incidenza di tale fenomeno varia in relazione alla ricchezza: nei paesi a più basso reddito la catastrofe finanziaria riguarda il 3,1% delle famiglie; in quelli a medio reddito l’1,8%; nei paesi più ricchi lo 0,6%[8].

Industrial epidemics[9] e Manufacturing Epidemics[10]: così è stato definito l’impatto devastante della globalizzazione sulla salute delle popolazioni, generato dalle invasive politiche commerciali delle compagnie multinazionali nei confronti dei paesi a basso e medio reddito. Un’invasione facilitata dalla liberalizzazione commerciale, dalle agevolazioni nei confronti degli investimenti esteri e dall’assenza della capacità di controllo degli stati (per lo più complici della penetrazione delle compagnie multinazionali). Il caso del tabacco è esemplare: l’industria del tabacco ha compensato la riduzione dei consumi nei paesi ad alto reddito rivolgendo le proprie mire espansionistiche verso i paesi più poveri (e demograficamente più attraenti). Tra il 1970 e il 2000 il numero di ettari destinati alla coltivazione del tabacco è più che raddoppiata in Honduras, Guatemala, Uruguay e Haiti e nei paesi che sono stati oggetto di investimenti diretti da parte dell’industria del tabacco (come nel caso di alcune ex-repubbliche sovietiche) il suo consumo è aumentato di oltre il 50%. Nei paesi più poveri al problema del consumo di sigarette di aggiunge anche quello dello sfruttamento minorile nella produzione e raccolta del tabacco: in Malawi i bambini che sono impiegati in questo lavoro sono esposti alla “Green Tobacco Sikness”: l’assorbimento di nicotina a tassi equivalenti a al fumo di 50 sigarette al giorno[11].

La pressione commerciale delle compagnie multinazionali nei confronti dei paesi a basso e medio reddito ha riguardato una vasta filiera di prodotti altamente dannosi per la salute (unhealthy commodities): tabacco, alcol, highly processed food (cibi confezionati, precotti, conservati, con basso contenuto nutrizionale e ad alta densità di calorie, resi particolarmente appetibili dall’elevata presenza di zuccheri o di sale), fast food e bevande gassate e zuccherate.  Le Figure 2 e 3 dimostrano come le vendite di unhealthy commodities siano nel tempo cresciute maggiormente nei paesi a basso e medio reddito.[12]

È stato calcolato che applicare nel paesi a medio e basso livello di sviluppo (quelli che stanno subendo le peggiori conseguenze dell’epidemia industriale) efficaci interventi prevenzione contro le malattie croniche – come quelli raccomandati dall’OMS nel programma NCD Best Buys[13] – verrebbe a costare 11,4 miliardi di dollari, ben poco rispetto a quanto hanno incassato nel 2017 le multinazionali del cibo, del tabacco, dell’alcol e delle bevande gassate:  un totale di 829 miliardi di dollari (vedi articolo di L. Allen su Lancet Global Health[14]).  La Figura 4 presenta la disaggregazione di questo fatturato per le diverse categorie di prodotto: i “processed food” sono in testa nelle vendite, ma il campione dei profitti più alti è il settore del tabacco, con un margine di profitto sulle vendite del 30%.

Ciò che colpisce maggiormente – su legge nell’articolo di Allen – è che un pugno di aziende detenga una quantità di risorse di un ordine di grandezza di gran lunga superiore a quanto richiesto per la prevenzione e il controllo delle malattie croniche. Coca-Cola spende ogni anno circa 4 miliardi di dollari in marketing, che è più di quanto spendono in sanità pubblica molti paesi a basso e medio livello di sviluppo, e le compagnie USA del tabacco spendono 1 milione di dollari ogni sessanta minuti in pubblicità. Nel gergo economico il consumo di tabacco, alcol, cibi spazzatura (junk food) e bevande zuccherate producono ‘esternalità negative’ – ecologiche, economiche, sociali e sanitarie – i cui costi ricadono su altri attori. Questi prodotti inoltre costituiscono i cosiddetti demerit goods perché il loro uso danneggia i consumatori. demerit goods tendono a essere sovra-consumati quando lasciati alle forze del mercato. Per questo i governi dovrebbero intervenire per ridurne il consumo attraverso tasse e con altri interventi semplici ed efficaci come quelli previsti nel programma NCD Best Buys”.

Bibliografia

  1. Olshansky SJ, et al. A Potential Decline in Life Expectancy in the United States in 21st Century. New England Journal of Medicine 2005; 352 (11): 1138-45
  2. United Nations, 2011. Political Declaration of the High-Level Meeting of the General Assembly on the Prevention and Control of Non-Communicable Diseases
  3. Chan M. The Rise of Chronic Noncommunicable Diseases: An Impending Disaster , Opening Remarks at the WHO  Global Forum Addressing the Challenge of Noncommunicable Diseases. Moscow, Russian Federation, 27 April 2011
  4. Chan M. WHO Director-General Addresses Health Promotion Conference, Opening Address at the 8th Global Conference on Health Promotion in Helsinki, Finland, 10 June 2013
  5. Bigna JJ,  Noubiap JJ, The rising burden of non-communicable diseases in sub-Saharan Africa, Lancet Global Health 2019; 7: e1295-6
  6. Arokiasamy P. India’s escalating burden of non-communicable diseases, Lancet Global Health 2018;6: e1262-3
  7. Jan S, et al. Action to Address the Household Economic Burden of Non-Communicable Diseases. The Lancet 2018; 391 (10134):2047-58
  8. Xu K, et al. Protecting Household fr om Catastrophic Health Spending. Health Affairs 2007; 26 (4): 972-83
  9. Jahiel RI, Babor TF. Industrial epidemics, public health advocacy and alcohol industry: lesson from other fields. Addiction 2007: 102:1335-39
  10. Stuckler D, McKee M, Ebrahim S,  Basu S, Manufacturing Epidemics: The Role of Global Producers in Increased Consumption of Unhealthy Commodities Including Processed Foods, Alcohol, and Tobacco. PLOS Medicine 2012; 9(6): e1001235
  11. Labonté R, Mohindra KS, and Lencucha R. Framing international trade and chronic disease. Globalization and Health 2011, 7:21,
  12. Moodie R, et al.  Profits and pandemics: prevention of harmful effects of tobacco, alcohol, and ultra-processed food and drink industries. Lancet 2013; 381: 670–79
  13. Tackling NCDs. “Best buys” and other recommended interventions for the prevention and control of noncommunicable diseases. Geneva: WHO, 2017
  14. Allen LF, Hafeti A, Fiegl AB. Corporate profits versus spending on non-communicable disease prevention: an unhealty balance. Lancet Global Health 2019; 7: e1482-83

fonte: SALUTEINTERNAZIONALE.INFO

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