Dopo gli Opg, il muro dell’imputabilità. di Pietro Pellegrini

“Il muro dell’imputabilità. Dopo la chiusura dell’Opg, una scelta radicale” è un volume realizzato dall’Ufficio del Garante delle persone private della libertà della Regione Toscana in sintonia con il movimento per il superamento dei manicomi giudiziari. A curarlo è Franco Corleone il quale, riprendendo precedenti disegni di legge, avanza la proposta di abolire la non imputabilità del malato di mente.

Questo porterebbe a superare il cosiddetto “doppio binario” e di fatto a scardinare la distinzione tra pene e misure di sicurezza. Il codice penale del 1930 fa riferimento alla legge 36 del 1904 sui manicomi che a partire da una visione del malato come “pericoloso a sé e agli altri”, attua un modello di tipo custodiale. Le leggi 180 del 1978 e 81 del 2014, che hanno chiuso i manicomi civili e quelli giudiziari, riconoscono i diritti da attuarsi nella comunità sociale. Il processo di soggettivazione in un quadro di libertà e responsabilità è essenziale per il programma di cura e il progetto di vita.

La sentenza 99 del 2019 della Corte Costituzionale ha esplicitato come la persona con infermità psichiche sopravvenute in carcere possa usufruire di misure alternative mediante un ragionevole bilanciamento tra i diritti della persona e la sicurezza della collettività. Il Comitato Nazionale di Bioetica e il Consiglio Superiore della Magistratura hanno sollecitato la collaborazione interistituzionale, che si è tradotta in alcuni protocolli regionali.

Le esperienze di chiusura degli Opg, pur condotte senza una regia nazionale, dimostrano che il nuovo sistema può funzionare. Infatti si stimano in circa seimila i pazienti seguiti nel territorio. Le trentuno Rems (Residenze per Esecuzione Misure di Sicurezza), molto diverse fra di loro, hanno un buon turnover e il 67% dei pazienti accolti nei primi tre anni sono stati dimessi. Tuttavia hanno seri connotati custodiali, certe persone sono di difficile gestione e altre rischiano di essere abbandonate.

La salute mentale richiede un sistema di welfare pubblico universalistico e un insieme unitario di diritti individuali e sociali come previsto dalla Costituzione. Il rischio di una regressione delle Rems e di una progressiva occupazione “giudiziaria” delle strutture dei dipartimenti di salute mentale necessita di una riflessione su devianza e conflitto e sulle funzioni delle pene, affinché siano più efficaci sia per le persone che per la sicurezza della comunità.

Per la cura si può operare solo nel consenso, favorendo la responsabilità e il protagonismo mediante percorsi di “capacitazione”. Serve un doppio patto uno per la cura, l’altro per la sicurezza. La proposta di riforma dell’imputabilità non mira affatto a negare il disturbo mentale, ma a responsabilizzare la persona rispetto all’agito.

Anche nelle ipotesi di proscioglimento, il fatto-reato resta ben presente nella vita psichica della persona che chiede di essere accettata in modo non giudicante, di trovare un senso, una conciliazione interiore premessa di un percorso riparativo e per quanto possibile di conciliazione.

E’ quindi fondamentale anche per i percorsi di cura un pronunciamento sociale, una sentenza che dia certezze, rispetto a kafkiane misure di sicurezza. Poi l’esecuzione della pena terrà conto del trattamento dei disturbi mentali considerando al contempo le necessità di sicurezza. Rivedere le funzioni delle pene implica un ripensamento degli istituti di pena, una diversa strutturazione delle Articolazioni tutela salute mentale nel carcere, la proposizione di altre soluzioni interne o esterne agli stessi istituti. Occorre un’analisi sui determinanti biologici, psicologici, sociali agendo su quelle più facilmente rilevabili e modificabili.

La proposta rilancia un’azione riformatrice per superare le contraddizioni del codice penale che rischiano di soffocare le buone pratiche e di far fallire una rivoluzione straordinaria, di civiltà e umanità.

fonte: FUORILUOGO

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