Il barometro della biodiversità. di Laura Scillitani

Manca pochissimo alla conferenza sulle parti per la biodiversità. Qual è la situazione attuale? Non proprio rosea, come rivelano i dati pubblicati negli importanti report Living Planet e State of the world birds. Ma non mancano alcuni segnali positivi, che indicano che invertire la tendenza è ancora possibile.

Secondo le stime dell’ONU, lo scorso 15 novembre la popolazione umana mondiale ha raggiunto l’impressionante traguardo di 8 miliardi di persone, una crescita che ha subito una rapida impennata nell’ultimo secolo. Considerando solo gli ultimi cinquant’anni, il numero di abitanti è letteralmente raddoppiato, mentre, nello stesso periodo, le dimensioni delle popolazioni di pesci, anfibi, rettili, uccelli e mammiferi sono drasticamente diminuite, e oggi sono circa un terzo di quelle degli anni Settanta. Il dato è quello dell’ultima stima del living planet index, un indicatore che fornisce un andamento nell’abbondanza relativa delle popolazioni nel tempo. L’ultima stima è stata ricavata analizzando i dati relativi a ben 5.230 specie e 32.000 popolazioni di vertebrati raccolti in tutto il pianeta, e indica un calo medio del 70%. Una media mondiale, si sa, mescola situazioni più rosee e più drammatiche, ed è quindi importante fare una distinzione tra le diverse regioni del pianeta. Così se Europa e Nord America hanno un declino di circa il 20% delle dimensioni delle popolazioni, e hanno un trend abbastanza stabile nelle ultime decadi, il living planet index mostra un declino del 94% in America Latina, del 55% in Asia e del 66% in Africa. Allo stesso modo, non tutti gli ambienti sono uguali, e tra quelli decisamente messi peggio si collocano le acque dolci, la cui fauna vertebrata si è ridotta dell’83%.

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Il living planet index funziona un po’ come un indicatore economico, quindi ci dà un andamento medio complessivo e non fornisce informazioni a livello di singole specie o singole popolazioni, e non ci dice quante specie si stanno estinguendo. Un altro limite è che fornisce indicazioni solo sui vertebrati, un compromesso dovuto al fatto che sono le specie su cui esistono più dati di lungo periodo. Proprio in virtù del numero elevato di studi, e di monitoraggi di lunga data che coinvolgono anche un numero sempre crescente di appassionati, gli uccelli sono tra gli animali su cui abbiamo informazioni più dettagliate, inclusi i cambiamenti nello stato di conservazione delle singole specie, e possono quindi essere usati come indicatori della biodiversità. Nel 2022, circa la metà delle specie di uccelli mostra un declino numerico, e più di 1.400 specie sono minacciate di estinzione, 230 rischiano di scomparire nell’immediato futuro. In Europa il 13% delle specie presenti (circa 540) sono a rischio. Dal 1980 a oggi nell’Unione Europea si è osservata una perdita netta di circa 600 milioni di volatili, che equivale a un calo di quasi il 20% della numerosità. Il declino non riguarda solo animali già di per sé rari o endemici, ma presenze comuni, in particolare negli ambienti agricoli, che sono quelli interessati da una diminuzione più marcata. Questi i dati dell’ultima edizione dello State of the world birds 2022, a cura di Birdlife international, una partnership internazionale che riunisce più di 100 Ong che si occupano di conservazione degli uccelli. Ancora una volta, la distribuzione delle specie a rischio di estinzione non è omogenea, e la maggior parte di esse si trova alle latitudini tropicali, con Indonesia e Brasile in testa.

Quello che mette a repentaglio le altre specie animali è in gran parte quello che favorisce la nostra. Alla base di tutto sta uno sfruttamento delle risorse non sostenibile, una domanda crescente e uno sviluppo economico che sovrasta tutti gli altri interessi. Deforestazione, intensificazione dell’agricoltura, conversione dei terreni a uso agricolo sono collegati a una crescente domanda di legna e cibo, l’espansione delle città comporta ampliamento sia di zone commerciali che residenziali, che devono farsi posto in ambienti naturali, il commercio internazionale è uno dei fattori che facilitano la diffusione delle specie aliene invasive. Così l’espansione e l’intensificazione dell’agricoltura, la deforestazione, la conversione e la degradazione degli habitat naturali, la diffusione di specie aliene, e il cambiamento climatico formano un cocktail letale, ed è difficile distinguere le diverse cause, perché si intrecciano e si sovrappongono.

Questo discorso ci riguarda anche da vicino. In Europa, l’intensificazione dell’agricoltura è una delle principali cause di perdita di biodiversità. Ambienti agricoli sfruttati oltre la capacità di rigenerazione dei suoli, fatti di colture tutte uguali e prive di elementi di diversificazione del paesaggio (boschi, siepi, specchi d’acqua) stanno causando la costante diminuzione di uccelli un tempo comuni, quelli legati a ambienti agricoli tradizionali: si parla, dal 1980 a oggi, di un calo del 57%. Tra i fattori che incentivano questo sfruttamento intensivo ci sono le politiche comunitarie agricole meglio note come PAC. Ora, la PAC si compone di due pilastri: i contributi diretti e il piano per lo sviluppo rurale. Il secondo, formalmente contiene elementi a sostegno di pratiche agricole sostenibili, ma, per valutazione stessa della corte dei conti europea tali obiettivi non sono misurabili, e nel decennio 2010-2020 non hanno dato esito alcuno, considerato il declino non solo degli uccelli, ma anche degli insetti presenti in aree agricole, come indicano i dati raccolti sulla biodiversità delle farfalle in ambienti agricoli. Un recente studio condotto in Svezia dimostra che il pascolamento consentito e finanziato dalla PAC nei prati umidi (uno degli ambienti da preservare per la Direttiva Habitat) ha causato la diminuzione di specie target per la conservazione come la farfalla Euphydryas aurinia e diverse specie di orchidee selvatiche. Occorre quindi un reale dialogo tra le politiche ambientali e agricole, cosa che si sta cercando di fare con il programma from fork to farm previsto dalla strategia europea per la biodiversità 2030.

Come già è emerso nelle discussioni della COP27 per il clima, i paesi a basso reddito sono quelli che pagano il prezzo più alto dell’impatto umano sul pianeta. Lo sfruttamento delle risorse naturali, la deforestazione, agricoltura e allevamenti intensivi sono spesso legati al commercio internazionale, più che al consumo locale. Una analisi dell’impatto di queste attività nel decennio 2001-2011 pubblicata su Nature, dimostra che il 33% della perdita di biodiversità in America centro-meridionale e il 26% in Africa sono dovuti a impatti legati a un consumo nelle altre parti del mondo. Anche in questo caso, come per il riscaldamento climatico, dunque, è necessario un impegno dei paesi più ricchi, sia per ridurre gli impatti che per ripristinare gli ambienti e tutelare la biodiversità.

Un mondo sempre più connesso spiana inoltre la via per l’espansione in nuovi lidi a diverse specie. Trasportate volontariamente o inconsapevolmente, piante e animali alieni possono arrivare in luoghi dove trovano un terreno più che fertile per la loro espansione, a spese della biodiversità locale. Il 46% delle estinzioni di uccelli registrate negli ultimi 500 anni, secondo il report di Birdlife, è dovuto proprio alle specie invasive. Uno degli ambienti più fragili è quello delle isole, dove si trovano la maggior parte delle specie endemiche. La maggior parte degli uccelli che si sono evoluti in contesti insulari, infatti, non hanno sviluppato difesa alcuna contro i predatori. Quasi il 70% delle specie di uccelli attualmente minacciate di estinzione a causa delle specie aliene invasive si trovano nelle isole oceaniche. I principali nemici sono ratti, topi e gatti, che predano uova e nidiacei.

Proprio le isole sono un simbolo dell’importanza delle azioni concrete di conservazione, e di come sia possibile invertire la rotta. Dal 1993 sono più di 20 le specie di uccelli salvate dall’estinzione grazie a progetti di eradicazione delle specie invasive sulle isole. Le analisi indicano che la ripresa delle popolazioni di uccelli marini avviene in tempi rapidi, una volta avvenuta l’eradicazione. E su questo, abbiamo dei successi tutti italiani. Tra questi l’eradicazione dei ratti nelle isole pontine, realizzato nell’ambito del progetto LIFE Ponderat (su Scienza in rete ne abbiamo parlato qui) grazie alla quale le berte possono finalmente nidificare tranquillamente. Un simbolo di speranza per il futuro è proprio la notizia di questi giorni del ritorno a Ventotene di Ligea, una berta marcata quando era solo un pulcino e che è tornata nella stessa cavità rocciosa in cui è nata dopo aver passato tre anni in volo sull’Oceano Atlantico.

La tutela, quindi, non è impossibile e paga. Grazie a una serie di politiche messe in atto per regolamentare la pesca, il drammatico declino di tonni e pesci spada, due specie in calo vertiginoso dagli anni Cinquanta, è stato arrestato. Come dimostra un’analisi pubblicata su Science a partire dalla messa in atto di nuove regolamentazioni, negli ultimi vent’anni si sta finalmente invertendo il trend. Lo stesso studio dimostra però che gli squali sono in grave pericolo. Il living planet index indica una diminuzione dell’abbondanza del 50% negli ultimi cinquant’anni, e tre quarti delle specie di squalo sono minacciate dal rischio di estinzione. La causa è una sovra-pesca deregolamentata, in particolare per l’utilizzo delle pinne di squalo. Uno spiraglio di speranza è dato dalla decisione presa a Panama, in questi giorni, nell’ambito del diciannovesimo meeting della conferenza delle parti della CITES di aumentare il livello di tutela, vietando la commercializzazione per 54 specie di squali.

Ci si sta sempre più rendendo conto dell’importanza di un coinvolgimento attivo delle comunità locali e dei popoli indigeni nella tutela della biodiversità, attraverso una gestione oculata e sostenibile dei territori, che punti a una efficace coesistenza tra attività umane e natura, con beneficio dell’ambiente e dei popoli che li abitano. Alla fine del 1800, a causa di una caccia sovradimensionata incoraggiata dal governo, nelle vaste praterie del Nord America restavano a malapena 1.000 bisonti. Un numero ridicolo, soprattutto considerato che le stime ci dicono che prima dell’arrivo dei coloni oltre 30.000 animali dominavano questo ambiente. Il bisonte è sempre stato un animale iconico per i nativi americani, perché da essi dipendeva il loro sostentamento, non solo per la carne, ma anche perché questo grande erbivoro ha un ruolo chiave nel funzionamento dell’ecosistema delle praterie. Oggi la specie è in netta ripresa, e il contributo delle comunità dei popoli nativi è stato essenziale per questo risultato. Non solo, la presenza dei bisonti rappresenta oggi una misura sostenibile di contrasto alla minaccia dei cambiamenti climatici nelle grandi pianure nordamericane, dove la siccità sta colpendo i sistemi agricoli tradizionali.

Il prossimo 7 dicembre si dà il via alla COP15 sulla biodiversità a Montreal, dove ci saranno le negoziazioni per il prossimo piano decennale per la biodiversità. Nel corso della COP27 Elizabeth Mrema, Executive Secretary della Convenzione ONU sulla Biodiversità, ha ricordato l’importanza di agire in maniera sinergica sul cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, e sull’importanza di mantenere il funzionamento degli ecosistemi proprio per contrastare le sfide del futuro. È possibile agire, se la sfida viene presa seriamente dai leader mondiali, se i giusti fondi vengono investiti (la biodiversità è costantemente una cenerentola nei finanziamenti) e se la tutela verrà messa in atto in modo concreto e non solo sulla carta.

fonte: Scienza in Rete

Crediti foto: Wynand Van Poortvliet su Unbsplash


     Laura Scillitiani

Si occupa di conservazione e gestione di grandi mammiferi da più di quindici anni. Si è laureata nel 2006 in Scienze Biologiche presso l’Università degli Studi di Bologna e nel 2011 ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze Animali presso l’Università di Padova. Ha collaborato a progetti sull’ecologia dei grandi mammiferi in Svezia, Svizzera e Francia e collaborato con diverse aree protette italiane, regionali e nazionali. Nel 2020 ha completato il Master “La scienza nella pratica giornalistica” presso La Sapienza Università di Roma. Al momento è collaboratrice esterna del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise ed è communication manager per il progetto Life Wolf Alps EU presso il Muse, Museo delle Scienze di Trento

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