Una mamma “disabilitata” dall’assenza di servizi sociali adeguati. di Ivana Palieri

Ho incontrato Federica (nome di fantasia) per aiutarla a capire come fare per non perdere il lavoro nella mia attività nello sportello per i lavoratori con disabilità e loro familiari in FLC/CGIL di Bari. Una delle prime cose che mi ha detto mentre le parlavo è stata «io sono qui fisicamente ma la mia mente no» e questo mi ha dato la misura della situazione che stava e sta vivendo.
Dopo avere parlato con lei e avere ascoltato una storia a cui penso spesso le ho chiesto di scrivere e far conoscere la sua storia e come si sentiva… questo di seguito è il testo da leggere fino in fondo.

«Sono una mamma di 3 figli di cui l’ultimo con gravissima disabilità. Andrea (il nome è stato cambiato per privacy) ha 9 anni, è un bambino dolcissimo, una dolcezza autentica, fuori dal comune. La sua malattia è stata scoperta subito in quanto appena nato, sembrava una bambola di pezza, non reagiva, non piangeva, nel giro di tre mesi l’agghiacciante diagnosi.
Momento di sconforto, rabbia, disperazione, che fare? Ti trovi di fronte ad un bivio, pensi di non potercela fare, ma ho scelto di andare avanti. Devi rivedere la tua vita, riorganizzarla; inizia una nuova vita, che non guarda al passato e neanche al futuro, conta solo il presente. Un presente fatto di grandi sacrifici, di forte stress fisico e mentale che ho scelto di affrontare con il sorriso sulle labbra, quel sorriso che viene da tutti scambiato per benessere, quel sorriso che significa che sei forte, puoi continuare così. Nessuno può capire che dentro te c’è un vero e proprio tsunami, e se riesci a sorridere è perché devi farlo, non hai altra scelta.
Per seguire mio figlio, ho messo da parte il lavoro, in quanto con una disabilità così complessa non puoi fare diversamente; ho provato a rientrare, ma il lavoro che faccio non permette di avere una flessibilità oraria tale da poter conciliate tutto e, sinceramente, non credo che esista un lavoro fatto ad hoc per la mamma di un bimbo con disabilità. Ho nuovamente lasciato il lavoro, in quanto il vero lavoro è seguire mio figlio. Non so se riuscirò a tornare a lavorare, la vedo dura, ma allo stesso tempo ho bisogno di lavorare, altrimenti come andare avanti? Ti rendi conto che sei completamente abbandonata dalle Istituzioni. Chi fa le leggi, chi si occupa di questa materia, dovrebbe vivere certe realtà, dovrebbe passare anche una sola giornata, compresa la notte, a casa mia, forse e sottolineo forse, solo cosi riuscirebbe a capire.
Tante volte penso che più la situazione è grave, più hai bisogno di aiuto, più sei un elemento di disturbo per questa società tanto selettiva. Ci si accorge dell’esistenza di mio figlio, solo quando lo Stato interviene per adempiere i suoi doveri burocratici. Vorrei tanto che venisse riconosciuto a tutti gli effetti il ruolo di caregiver, che ogni tanto qualcuno si ricordasse di noi, magari con una visita periodica per valutare i bisogni della persona con disabilità e anche dei suoi familiari. Si sta, invece, comodamente sulle proprie poltrone all’interno dell’ufficio e si fa tanta fatica ad uscirne.
Non mi stancherò mai di urlare che siamo completamente abbandonati e l’isolamento per una famiglia come la nostra, è la peggior cosa. Per non impazzire, mi sono creata una corazza, una sorta di rifugio mentale che mi permette non di vivere, ma di sopravvivere».

Io ho letto tutto d’un fiato il testo e conosco bene quella rabbia mista a senso d’impotenza e mi chiedo se le nostre istanze vengano realmente lette come diritti o come favori concessi per un senso di pietà riservandoci quel poco che rimane.
La soluzione vista dal punto di vista di chi la vive ogni giorno sarebbe quella di un’assistenza domiciliare almeno notturna (impossibile da avere con l’ASL e privata per un minore è una responsabilità enorme che nessuno prende) e di un supporto maggiore a scuola, perché questo bimbo ha il diritto di essere seguito meglio a scuola anche con le sue difficoltà.
Probabilmente chi si occupa di tematiche a livello politico, sulla disabilità, come dice la signora, dovrebbe viverle almeno un giorno della propria vita e poi cercare e trovare soluzioni.

L’Autrice Ivana Palieri: Associazione PugliAccessibile; Sportello FLC/CGIL lavoratori disabili Puglia; attivista LGBTQIA+; collaboratrice redazionale di «lavoroesalute».


Il presente testo è già apparso nella testata «lavoroesalute» e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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