La transizione migratoria italiana negli anni della crisi. di Antonio Sanguinetti

L’articolo* intende mostrare i mutamenti e le persistenze del modello migratorio italiano negli ultimi dieci anni. Lo studio vuole mettere in evidenza due processi, uno riguarda il cambiamento degli indirizzi legislativi relativi alle politiche di ingresso e ai permessi di soggiorno, l’altro lo stato attuale dei processi di segregazione etnica nel mercato del lavoro.

I due aspetti, apparentemente distinti, mostrano in realtà come il drastico restringimento dei canali di ingresso legali per motivi di lavoro abbia comportato anche degli effetti indiretti sul mercato del lavoro migrante. I processi di segregazione razziale – sebbene già presenti – si sono accentuati sensibilmente fino ad operare una sorta di «ghettizzazione» occupazionale dei migranti. Nell’analisi delle tendenze relative alle quote di ingresso e ai motivi dei permessi di soggiorno rilasciati si possono distinguere tre diverse fasi: la prima emergenziale; successivamente quella umanitaria; e infine la fase attuale di drastico restringimento.

Nel 2008, il primo anno preso in analisi nell’articolo, era ancora in vigore il modello italiano definito da molti «emergenziale», in quanto basato sulla regolarizzazione ex-post dei migranti. Un paradigma che mostrava già allora chiari elementi di crisi. Infatti, l’ultimo «Decreto Flussi» ordinario è del 2006, mentre negli anni seguenti vengono stabilite, in via transitoria, quote di ingresso sempre più ridotte. Nel 2009, invece, fu approvata l’ultima «sanatoria», rivolta solo a colf e a lavoratori domestici e segnò la fine dell’epoca «emergenziale». A partire dal 2011 emerge il cosiddetto «modello umanitario», la cui affermazione si può notare dalla notevole crescita del numero dei permessi per richieste di asilo e il rilascio di quelli per protezione internazionale e soprattutto umanitaria. Questa fase si apre a causa dell’esplosione di conflitti in molte aree limitrofe all’Europa, ma si espande altrettanto per motivi che vanno oltre le crisi internazionali. Per molti migranti arrivati in Italia la domanda di asilo diviene l’unica possibilità di accesso ai percorsi di regolarizzazione: si tratta di una sorta di reazione «dal basso» alle politiche di restringimento degli ingressi legali. Questa fase, tuttavia si chiude nell’arco di pochi anni. In questo senso un ruolo propulsore è stato svolto dagli accordi stretti dall’allora ministro dell’Interno Minniti con il governo di Tripoli allo scopo di contrastare il flusso migratorio in partenza dalla Libia.

L’attuale ministro Salvini si inserisce in questa linea politica, seppur adottando un profilo politico più radicale, si muove nell’intento di bloccare gli arrivi via mare e di impedire le operazioni di «Search and Rescue» delle ong nel Mediterraneo. In questo contesto la composizione della presenza migrante sul territorio italiano è mutata da molteplici punti di vista. In pochi anni il permesso per motivi di lavoro, che era lo strumento più diffuso di regolarizzazione degli ingressi, si è ridotto notevolmente fino a diventare residuale. Nello stesso arco di tempo sono aumentati considerevolmente i permessi rilasciati per motivi di protezione umanitaria. Probabilmente l’assenza di misure di ingresso regolari per lavoro è stato sostituito informalmente da questo altra tipologia di permesso che ha consentito a molti richiedenti asilo, non in possesso dei requisiti necessari per ottenere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, di vivere regolarmente sul territorio italiano.

Un altro elemento di scarto con il passato riguarda le fasce di età prevalenti tra gli arrivi. Infatti si è accentuata l’incidenza dei minorenni. In particolare, ciò che può destare preoccupazione è l’aumento dei «minori stranieri non accompagnati», che negli anni ha assunto sempre più un rilevanza. Gli effetti della transizione migratoria italiana sull’accesso al mercato del lavoro per gli stranieri non presenta elementi di cesura con il passato. Non è cambiato, infatti, l’insediamento storico dei migranti in alcuni comparti produttivi, quali: i servizi alla persona; l’edilizia; il commercio; l’agricoltura. Anzi la situazione si è consolidata e, per certi versi, approfondita. La riproduzione della presenza migrante in determinati settori è agevolata dalla struttura dell’incontro domanda offerta di lavoro, la quale avviene quasi esclusivamente tramite l’intermediazione di amici e parenti. Le informazioni sul mercato del lavoro sono mediate dalla rete sociale di appartenenza. Ciò vuol dire che l’inserimento avviene per lo più in ambiti già conosciuti, dove in molti dei casi vi è già una presenza migrante.

Negli ultimi anni la segregazione etnica dei migranti si è rafforzata: appare sempre più come un’area separata del mercato del lavoro. Si può parlare, ormai, di una «ghettizzazione» con una significativa condizione di isolamento spaziale. Dall’elaborazione dei dati sulla localizzazione geografica dell’attivazione dei contratti di lavoro emerge decisamente come la presenza dei lavoratori di origine migrante segua traiettorie etniche. Allo stesso modo, si nota come alcune comunità originarie della stessa nazione si concentrino in determinate aree del Paese. È il caso, ad esempio, dei cinesi nella provincia di Firenze, degli indiani nell’agro Pontino, dei tunisini nella valle di Noto, dei ghanesi nel foggiano. Il mercato del lavoro italiano, dunque, presenta sempre più caratteri di «ghettizzazione» su base razziale, nel quale l’occupazione svolta e il luogo dove si svolge è fortemente connesso al Paese di provenienza.

* Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 2 2019 di Rps e scaricabile dagli abbonati nella versione integrale al link: https://www.ediesseonline.it/prodotto/rps-n-2-2019/

Fonte: La Rivista delle Politiche Sociali / Italian Journal of Social Policy, 2/2019 RPS FREE TEXT

Antonio Sanguinetti è dottore di ricerca in Sociologia e Scienze sociali applicate e cultore della materia in Sociologia dei processi di socializzazione presso l’Università «Roma Tre».

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